di Eugenio Di Rienzo
Nel quadro delle riflessioni che hanno accompagnato le celebrazioni del Centenario della Grande Guerra, il volume di Veronica De Sanctis, “Italy our Ally”. La propaganda culturale italiana in Gran Bretagna durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1918), edito da Nuova Cultura, esamina con accuratezza la tematica della propaganda oltreconfine. La cosiddetta soft power diplomacy, quella che Mussolini poi ribattezzò «l’arma più forte», che pur essendo una componente essenziale dello strumentario bellico utilizzato dalle principali Potenze impegnate nel primo conflitto globale, è stata, finora, poco e male studiata dalla storiografia italiana.
Scomparsa l’illusione di una guerra breve, nell’ambito di un conflitto divenuto totale, gli Stati belligeranti compresero come la costruzione e la gestione della propria immagine non potessero passare più solo attraverso il controllo censorio della stampa, ma fosse divenuto necessario pianificare scientificamente l’elaborazione di un messaggio che tenesse conto delle inclinazioni e delle attitudini dei diversi soggetti cui si rivolgeva.
A tal fine, con modi e in tempi diversi, vennero sviluppate una serie di organizzazioni e strutture dedite all’attività di propaganda dentro e fuori i confini nazionali, tanto presso i paesi neutrali quanto quelli alleati. Un aspetto, quest’ultimo, che presenta notevoli ragioni d’interesse se si considerano gli sviluppi del conflitto e si esamina in particolare il caso italiano; tanto più che la partecipazione dell’Italia, ancora nel ’14 alla Triplice Alleanza e l’adesione nel ’15 all’Intesa, aveva facilmente dato adito alle peggiori accuse di parte austro-tedesca, senza per questo avere il contemporaneo sostegno delle opinioni pubbliche occidentali. Su questa tematica aveva insistito Gioacchino Volpe che, profeta inascoltato dagli analisti del passato italiani del secondo dopoguerra, già agli inizi degli anni Quaranta scriveva:
“Particolarmente ardua, per circostanze intrinseche al Paese, si presentò dunque, sin dall’inizio, la guerra italiana. Alla quale mancò anche quel largo consenso di opinione pubblica straniera che riscaldò e alimentò la guerra delle Nazioni occidentali, specialmente della Francia. Per la gente del mondo, quasi non esistevano interessi italiani e una politica volta a tutelarli. Era lecito agli altri quel che non era lecito all’Italia. Ogni suo muoversi urtava cento interessi e giudizi o pregiudizi. L’aver mosso guerra a ex alleati diede pretesto per gridare al tradimento. L’aver quella guerra, assunto l’aspetto d’iniziativa nostra, e di guerra offensiva, ci procurò l’accusa di provocatori e rinfocolatori di guerra, quanto e più che la Germania e l’Austria.
Il pacifismo mondiale poteva aver accettato la guerra altrui, ma strillò forte quando ci muovemmo noi: strillarono circoli e giornali della democrazia, organi cattolici, rappresentanti del femminismo. Le dimostrazioni di maggio, nel momento culminante della lotta interna per l’intervento, apparvero a tanta gente, di fuori, opera della canaglia cittadina. E questo non solo presso gli ex alleati, ma anche presso gran parte dei neutrali: vuoi che qui operassero contro di noi le sottili suggestioni della propaganda austriaca e, più, germanica, vuoi che questo fosse lo stato d’animo di quei Paesi in rapporto all’Italia. Così fu in alcune zone delle due Americhe. Così accadde nelle piccole Nazioni dell’Europa settentrionale, in Olanda, Danimarca e Norvegia. E dalla Svezia, quando la nostra guerra apparve imminente, ci venne una specie di minaccioso avvertimento. Così, più ancora, in Svizzera.
Anche da parte dell’Intesa non mancò, fra gli inni della fratellanza latina e della solidarietà di guerra, un accorto lavorio giornalistico, non so quanto spontaneo, che presentò durante la neutralità gli Italiani ora mercanteggianti fra Triplice e Intesa, ora intenti a scroccare le loro fortune, precipitandosi sui cadaveri. Né mancarono, quasi a impiantar la futura battaglia diplomatica e giornalistica, le prime battute polemiche, che poi diverranno piena orchestra, su l’imperialismo italiano in Adriatico. Insomma, non calore di simpatia vi fu attorno alla guerra italiana. Piuttosto preoccupazioni, sospetti, senso di contrarietà. Non molte parole e giudizi che suonassero riconoscimento di una necessità o di un legittimo interesse italiano, salvo il linguaggio d’occasione da parte di chi era direttamente interessato al nostro intervento.
Dobbiamo riconoscere che noi avemmo allora e avemmo durante la guerra scarsa capacita e possibilità, in confronto dell’Inghilterra e Francia, di agire su l’opinione mondiale, di imporre a essa i nostri punti di vista, di trasformare, mediante la così detta propaganda, in valori universali e assoluti anche quelli che potevano essere particolari interessi nostri”.
L’Italia, scesa in campo a dieci mesi di distanza dall’inizio del conflitto, con analogo ritardo cominciò ad occuparsi della questione della difesa e promozione della propria immagine in guerra. Proprio da questo presupposto prende le mosse il volume di Veronica De Sanctis, che ricostruisce i temi gli strumenti e i protagonisti dell’azione di propaganda svolta oltreconfine, in particolare in Gran Bretagna allora al centro dal dibattito ideologico sugli scopi della guerra.
I primi tentativi istituzionali di gestione della propaganda, attuati dal governo Boselli con l’avvio del Ministero per la propaganda (novembre 1916) diretto da Vittorio Scialoja, non furono tuttavia utili a migliorare l’immagine di un’Italia che, all’interno dell’Intesa, veniva percepita come intenta a combattere una “propria” guerra. Difatti, i contenuti dell’azione propagandistica affidata esclusivamente a nazionalisti e irredenti stonavano sempre più con i nuovi concetti di “sicurezza collettiva” e di “autodeterminazione dei popoli” che allora iniziavano a farsi strada.
Fu lo sfondamento del fronte isontino, e l’impatto che ebbe presso le capitali alleate, a far comprendere la necessità di dare vita ad una struttura in grado di mettere in sordina i toni del nazionalismo intransigente per sostituirli con un linguaggio idoneo a presentare la guerra italiana come parte della più generale guerra dell’Intesa. Con l’istituzione del Sottosegretariato di Stato per la Propaganda all’estero e per la Stampa, retto dall’onorevole Romeo Gallenga Stuart (novembre 1917 – novembre 1918), prese allora avvio il nuovo corso della propaganda italiana voluto dal neopresidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando.
Si centralizzarono azioni, sedi e direttrici di lavoro e si avviò allora un cambio negli uomini e nei contenuti, ora più attenti alla questione delle nazionalità oppresse dell’Austria-Ungheria, che in Italia aveva come sostenitori Gaetano Salvemini, Leonida Bissolati e il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini. Questo nuovo indirizzo politico, alternativo a quello portato avanti dal Ministro degli Esteri Sonninio strenuamente legato al Patto di Londra, era particolarmente sentito a Londra dove entrò in azione l’Italian Foreign Action Bureau, sottoposto alla direzione politica dell’ambasciatore Imperiali, a capo del quale fu posto il tenente colonnello della Croce Rossa Filippo De Filippi.
L’autrice ci riporta dietro le quinte dell’attività dei collaboratori del Bureau (l’addetto militare italiano, generale Armando Mola e il corrispondente del Corriere della Sera, Guglielmo Emanuel), i cui contatti informali con i leader esuli degli slavi del sud (in primis Ante Trumbić) e il gruppo di jugoslavofili britannici (Henry Wickham Steed e Robert William Seton-Watson) portarono alla convocazione del Congresso delle nazionalità oppresse, tenutosi a Roma dall’8 al 10 aprile 1918. Gli uomini di governo non furono tuttavia in grado di sfruttare questo vantaggio.
La documentazione inedita rintracciata dalla De Sanctis presso l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, cui si aggiungono elementi archivistici provenienti dai National Archives e dalla British Library di Londra, offre difatti i dettagli di un’attività propagandistica più incentrata ad esaltare l’italianità in ogni suo aspetto che a promuovere l’intesa con le popolazioni in questione. In Gran Bretagna ciò prese la forma di una intensa propaganda culturale condotta attraverso incontri, mostre, convegni, iniziative editoriali, rappresentazioni teatrali e musicali; tutte tese ad esaltare tra il pubblico inglese l’italianità in ogni sua componente: storica, artistica e linguistica.
Non mancarono, però, alcuni, sia pure spradici importanti risultati come la pubblicazione del periodico The Anglo-Italian Rewiev, diretto da Edward Hutton, noto scrittore inglese ingaggiato dall’ufficio italiano a Londra. Proprio l’impegno di Hutton per migliorare la conoscenza reciproca tra i due paesi portò all’istituzione di cattedre di lingua italiana a Oxford, Cambridge e Manchester. Di particolare interesse è la marcata difficoltà dei principali attori della propaganda all’estero (Sottosegretariato e Consulta) nel tenere una linea politica univoca, dopo che le pressioni dell’opinione pubblica britannica e statunitense avevano spinto i centri italiani di propaganda a supportare la “politica delle nazionalità”, malgrado l’avversione del governo di Roma. In sostanza, emerge un sistema di “politiche parallele” che non consentì di trasmettere l’immagine di un paese coeso, facendo affiorare tutta l’ambiguità con cui venne gestita l’azione di propaganda all’estero in generale e in Gran Bretagna in particolare contribuendo, l’inadeguatezza di mezzi materiali e finanziari, a ridimensionarne i risultati.
(Pubblicato il 23 ottobre 2019 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)