Professor Di Rienzo, che opinione si è fatto del fallito putsch militare contro il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan?
Farsi e dare un’opinione del tutto attendibile, a solo pochi giorni da un evento, sul cui significato politico, svolgimento, obiettivi, gravano ombre e nebbie che forse non si diraderanno mai, è impossibile. Alcuni analisti pretendono di aver capito tutto, ma, così facendo, alimentano inconsapevolmente la disinformazione. Io, fino a questo momento, ho almeno compreso che parlare di un auto-golpe organizzato da Erdoğan per rafforzare il suo potere e procedere a una purga di massa di quei settori della società turca (parte dell’esercito e della magistratura), che resistono ancora alla deriva autoritaria, è soltanto un assioma indimostrato.
Si dice: l’alzamiento era così mal congegnato che non poteva essere che un falso golpe o un mini-golpe, E a dirlo, qui da noi, è addirittura il vice Presidente del forse a torto quotatissimo Istituto per gli Studi di Politica Internazionale! Si parte dal presupposto che un putsch fallito non può essere autentico ma solo opera di una macchinazione ordita dallo stesso potere in carica e che gli unici veri golpe sono quelli che hanno successo. Ma quanti genuini colpi di Stati, mal preparati, peggio attuati e finiti nel nulla ci sono stati nella storia? Potrei fornirne un lunghissimo elenco dalla Congiura di Catilina all’invasione anti-castrista della Baia dei Porci a Cuba e più avanti Anche il golpe militare contro Hitler del luglio 1944 fallì. Ma nessuno fino a questo momento si è azzardato a dire che il putsch fu organizzato dalla Cancelleria del Reich poter eliminare i gruppi anti-nazisti della Wermacht.
E poi cosa vuol dire un «golpe organizzato dallo stesso Erdoğan»? Forse che il premier turco ha convinto un gruppo di ufficiali prima a pianificare una falsa congiura contro di lui, poi a perderla e infine a farsi imprigionare, torturare massacrare nelle strade, insieme ai loro soldati, e a mettere a repentaglio le vite dei loro familiari?
Se il golpe non ha avuto successo, la responsabilità è tutta dei suoi organizzatori che l’hanno male preparato e peggio attuato sul piano della tecnica militare: numero insufficiente dei reparti impegnati nella congiura, ruolo preponderante svolto da ufficiali di medio-alto livello, mancata esautorazione del premier, degli Stati Maggiori, dei responsabili delle forze dell’ordine che ha impedito di paralizzare la catena di comando formale. I ribelli, inoltre, hanno incredibilmente sottovalutato la capacità di reazione del governo, dei reparti lealisti e della contro-insurrezione popolare favorevole a Erdoğan. Nella notte del 15-16 luglio sono confluite su Istanbul le masse di emigrati dell’Anatolia insediatisi nel vastissimo hinterland della città del Corno d’Oro. Sono loro, per primi, ad aver decretato la disfatta del putsch. Sono loro ad aver fermato a mani nude i blindati golpisti che sono stati frettolosamente abbandonati dai loro equipaggi, composti, molto probabilmente, da altri anatolici che non hanno voluto tirare sui loro compaesani. E’ con questa Turchia che, piaccia o no, Europa e Usa avranno a che fare d’ora in poi, non certo con gli ospitali, cortesi, raffinati, cosmopoliti stambulioti che fanno la delizia dei turisti occidentali.
Alcuni addetti ai lavori hanno avanzato l’ipotesi che vi sia un collegamento tra il tentato golpe e il recente cambio di registro varato da Erdoğan, con la riconciliazione con Israele e le scuse ufficiali alla Russia per l’abbattimento del Sukhoi dello scorso settembre. Non è probabilmente un caso che il ministro dei Trasporti di Ankara abbia accusato Washington di aver appoggiato il colpo di Stato e che il primo ministro abbia chiesto formalmente agli Usa di estradare il potente Fetullah Gülen. Crede che vi sia un legame tra il tentato golpe e la svolta nel conflitto in Siria ed Iraq a seguito dell’intervento.
Il significato internazionale del golpe e del suo fallimento è tutto nei pezzi di un puzzle che è difficile ma non impossibile far combaciare. Proverò a elencarli.
– Nelle ultime settimane di giugno, Ankara inizia una sorprendente manovra di accostamento verso i suoi più conclamati avversari (Israele, Siria, Russia), mirata apparentemente a porre i presupposti dell’attacco finale contro le roccaforti dello Stato Islamico, sganciandosi dalla fedeltà all’alleanza sunnita (Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Giordania, Egitto). Secondo alcune fonti, durante i colloqui con la diplomazia russa, Erdoğan non solo si è scusato ufficialmente per il proditorio abbattimento del Sukhoi Su-24, avvenuto nel novembre 2015 nel cielo siriano, ma avrebbe anche offerto a Mosca una base aera in territorio siriano per permetterle di intensificare l’offensiva contro Daesh.
– Il 13 luglio, il Segretario di Stato John Kerry raggiunge Mosca per sottoporre a Putin il programma di una «close military coordination» contro il Califfato che potrebbe trasformare, con un colpo di bacchetta magica, la Russia da «Public Enemy Number One» in Europa orientale, a principale alleato nel Levante. Nel momento del golpe, Kerry è ancora a Mosca e mi pare impossibile che non ci sia stata una consultazione con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov su quello che stava accadendo ad Ankara e Istanbul. E se questa consultazione fosse avvenuta invece nei giorni precedenti? Se, insomma, il vero obiettivo della missione di Kerry fosse stato quello di preavvertire il Cremlino di ciò che si preparava a ridosso dei confini meridionali della Federazione Russa, per spuntare un suo assenso (a determinate condizioni) per un colpo di Stato ispirato, incoraggiato o anche soltanto tollerato dagli Usa?
– Nelle prime ore dell’alzamiento tutte le capitali NATO tacciono, invece di fornire solidarietà e sostegno militare al governo turco, loro alleato, che ha a disposizione il più forte apparato militare della coalizione atlantica e che controlla il cruciale pivot geostrategico che si estende tra Europa, Medio Oriente, Caucaso, Asia centrale. Il silenzio è rotto da Kerry, alle 1,00 del 16 luglio, dopo l’inizio del fallimento dell’alzamiento, con un messaggio televisivo in cui si sostiene, senza se e senza ma, Erdoğan e il suo regime. Alle 1,20, è lo stesso Obama a ripetere quando detto da Kerry. Alle esternazioni Usa si accodano, mezz’ora dopo, la Merkel, il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, l’ineffabile Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione Europea, per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza. Poi è la volta di altri premier europei e come, fanalino di coda, del nostro frastornatissimo Matteo Renzi. Putin, che anche questa volta, presumo, uscirà come il solo vincitore da questo «dirty affair», prende le distanze da tali esternazioni e si limita ad auspicare che si possa evitare un bagno di sangue.
– Nei giorni successivi Erdoğan mette sotto accusa Washington. Reclama l’estradizione per alto tradimento di Fetullah Gülen, che molti anche in Europa ritengono l’ideologo del golpe, aggiungendo che «il Paese che sarà al fianco di Gulen non potrà più contare sulla nostra amicizia». Arresta il comandante della base aerea di Incirlik, utilizzata dall’U.S. Air Force nei raid contro l’Isis, per connivenza con i golpisti, chiude lo spazio aereo della base, la priva di energia elettrica e la rende così temporaneamente inutilizzabile ai cacciabombardieri americani. Forse il nuovo Sultano non ha dimenticato che la, un tempo autorevole, rivista Foreign Affairs, ora divenuta una sfiatata cassa di risonanza del Dipartimento di Stato, aveva pubblicato a fine maggio un articolo intitolato Turkey’s next military coup. Certo Erdoğan, ricorda bene che nelle ore più concitate del putsch, quando la popolazione aveva cominciato a scendere in piazza contro i golpisti, la rete statunitense NBC propagandava la notizia d’improbabili fughe del premier turco nei cieli di mezza Europa, evidentemente forgiata ad arte per scoraggiare la mobilitazione dei suoi sostenitori. Nel farlo, ricordiamolo, l’emittente aveva citato a sostegno fonti militari statunitensi.
– Da quasi due anni Obama non considera più la Turchia come l’attore militare, in grado di tenere a bada la Russia nel cruciale quadrante strategico del Mar Nero, e di costituire l’anello forte dell’alleanza sunnita, grazie alla quale Washington ipotizzava di poter ridisegnare la carta politica del Medio Oriente. Progressivamente Erdoğan è apparso, infatti, un alleato militarmente potente sì ma scomodo e pericoloso, perché il progetto neo-ottomano del premier turco di estendere l’egemonia del suo Paese sull’antico Impero della Casa di Osman, dai confini dell’Iran alla Siria all’Africa settentrionale, all’Asia centrale, si è configurato sempre più come l’ambizione inconsulta di un «mad dog» che manovrava, senza controllo e senza bussola, su uno dei più tormentati archi di crisi dello scenario mondiale.
Sostituire, però, Ankara con un’altra Potenza non è facile, prova ne è l’insuccesso della Casa Bianca di fare della Romania la nuova «sentinella del Mar Nero», finanziando direttamente e indirettamente il riarmo della flotta di Bucarest. Un cambio di regime in Turchia può essere sembrato, alle «teste d’uovo» del Dipartimento di Stato, la sola soluzione accettabile per riguadagnare il controllo sul Medio Oriente su cui si è affacciata, con grande successo, l’iniziativa militare e diplomatica di Mosca. Una reggenza militare, da affidare magari ai comandanti della II armata e della III Armata, molto vicini alla NATO e al Pentagono (anch’essi imprigionati nella mattina del 16 luglio, con l’accusa di aver favorito il golpe), poteva essere, infatti, la carta vincente per uscire da una situazione di rischiosissima impasse.
Questi i pezzi del puzzle che sicuramente i lettori de L’Indro sapranno mettere insieme. Per quello che mi riguarda, vorrei soltanto aggiungere che se il golpe fallito ha scatenato una terribile stretta contro l’opposizione turca, un colpo di Stato riuscito avrebbe gettato ineluttabilmente la Turchia nel pieno di una guerra civile, con conseguenze incalcolabili sul già precario stato di salute dell’equilibrio globale.
Come crede che si evolveranno le cose in Turchia dopo il fallito golpe?
Posso azzardare solo qualche ipotesi. Forse, ma vorrei sottolineare questo «forse», Erdoğan riuscirà a rafforzare il suo potere all’interno, dopo aver decapitato le uniche forze di opposizioni veramente temibili. Più complessa e difficile sarà la sua posizione all’esterno. La ripresa dei rapporti con Tel Aviv e Mosca non saranno sufficienti a mettere in sicurezza la posizione internazionale del suo regime, perché la Federazione Russa è ora una Potenza con cui la Turchia confina in Siria, nel Kurdistan occidentale da cui provengono le più forti minacce alla sua integrità territoriale. Erdoğan, infatti, non ha ricevuto nessuna assicurazione, né dagli Usa né dalla Russia, che non si formi uno Stato curdo-siriano, capace di attrare nel suo seno i curdi dell’Anatolia sud-orientale, dove la guerriglia del Pkk imperversa contro le forze di Ankara. Inoltre, la Turchia dovrà vedersela con uno dei suoi più antichi nemici storici (l’Iran) che, dopo la fine delle sanzioni, ha aumentato enormemente la sua importanza sullo scacchiere regionale. Certo Erdoğan cercherà, come sta già facendo da più di un mese, di giocare di sponda tra Washington, Berlino e Mosca, gettando sul tavolo delle trattative il peso imponente dell’apparato bellico turco, la presenza nel territorio turco di un ingente potenziale atomico NATO e la delicatissima e urgente questione dei migranti, ma non è detto che questo gioco d’azzardo abbia successo nei tempi lunghi. Prima o poi, si sa, tutte le vecchie volpi finiscono in pellicceria.
Pur guidando una coalizione internazionale contro l’Isis, gli Usa continuano comunque a rifornire di armi i cosiddetti “ribelli moderati”, sebbene quelle armi siano più volte ricomparse in mano a gruppi come al-Nusra. Quale crede che siano i veri obiettivi perseguiti dagli Stati Uniti e dalla Russia in Siria? A cosa è dovuta la discesa in campo di Mosca nel complesso scenario mediorientale?
A pochi mesi dalla fine del secondo mandato Obama si trova di fronte alla scelta più difficile della sua Presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Putin, rinnovando l’intesa contro la minaccia jihadista stretta con la Federazione Russa dopo l’attentato del World Trade Center, pur d’infliggere un colpo mortale all’Ansar al-Dawla al-Islamiyya, oppure abbandonerà la Casa Bianca senza aver affrontato quella che egli stesso ha definito «la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente». I perduranti tentennamenti di Obama a premere con decisione sugli oppositori di Bashar Hafiz al-Assad, sulla Turchia, sulle altre Potenze sunnite, per agevolare il proseguimento dell’offensiva russo-siriana in direzione di Aleppo e al-Raqqa, rischiano di minare la possibilità di dare una risposta globale alla minaccia del Daesh e di debellarlo in Libia.
La mancata intesa tra Mosca e Washington ha finora impedito di ostacolare la penetrazione dello Stato Islamico, dalle aree calde dell’Africa settentrionale e occidentale all’Europa meridionale, e non ha cnsnetito agli Stati Uniti di recuperare la loro credibilità nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire la sua influenza nel mondo arabo. Ora, dopo la visita di Kerry a Mosca, le cose potrebbero mutare. Ma la mia sfiducia su Obama e sul suo più probabile successore (Hillary Clinton) non mi fa ben sperare.
Della guerra in Ucraina, altro fronte su cui la Russia è particolarmente impegnata ed esposta, non si parla praticamente più, nonostante la crisi – che vede il coinvolgimento diretto di potenze nucleari e tira direttamente in ballo la collocazione strategica dell’Europa – non sia affatto alle spalle. Lei, che è stato uno degli studiosi italiani più attenti alla spinosa questione, ritiene che siano maturi i tempi per elaborare una soluzione condivisa del problema-Ucraina? Quale rapporto ritiene occorra istituire con la Russia?
La soluzione è dietro l’angolo, a condizione che Washington obblighi Kiev a ottemperare agli accordi di Minsk2. Anche questa speranza mi pare, tuttavia, destinata a restare inesaudita. Nel recente vertice NATO di Varsavia (8-9 luglio 2016), gli Usa, sfruttando il revanscismo anti-russo di Polonia, Romania, Repubbliche baltiche, hanno addirittura accentuato la loro politica di confronto/scontro con Mosca che sta provocando una profonda spaccatura all’interno dell’Alleanza atlantica e dell’Unione Europea. La coalizione, nata il 4 aprile 1949, è infatti attualmente divisa tra Stati favorevoli a riprendere e, se possibile, incrementare il dialogo con la Russia e ad avviare con essa una cooperazione idonea a contrastare la minaccia dell’islamismo militante (Italia, Francia, Germania, Ungheria, Grecia) e altri (Regno Unito, Turchia, Paesi del vecchio blocco socialista, nazioni scandinave e dell’Europa settentrionale) che considerano la Federazione Russa un potenziale nemico da contenere e possibilmente da spodestare dal suo status di Big Power. Molto recentemente, però, Londra si è smarcata da questa posizione oltranzista, con una dichiarazione del nuovo Foreign Secretary, Boris Johnson, che ha sottolineato la necessità di avviare, il prima possibile, un processo di appeasement con la Russia.
Barack Obama si appresta a concludere il suo secondo mandato presidenziale, ponendo fine ad un’esperienza politica rispetto alla quale i giudizi sono contrastanti. Di sicuro, l’elezione di Obama ha suscitato enormi speranze. Ritiene che il suo operato sia stato all’altezza delle aspettative? Quale giudizio esprime su candidati attualmente in lotta per prendere il suo posto a novembre?
Il primo Presidente afro-americano, avventatamente insignito 2009 del Premio Nobel per la pace con la motivazione di «aver contribuito con i suoi sforzi straordinari a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli», lascia in eredità al mondo un mucchio di macerie. Obama, comunque, non è stato né il «re fannullone» né il «presidente pacifista» né l’amletico «realista riluttante» della politica internazionale come hanno sostenuto molti commentatori, superficiali o interessati. Né tantomeno, l’inquilino della Casa Bianca è stato il decisore di buona volontà, tradito, nella crisi libica, dalla malafede dei suoi alleati europei: immagine che la narrazione auto-apologetica dei suoi due mandati vorrebbe accreditare.
Le debolezze e l’apparente irragionevolezza della sua strategia internazionale riflettono, invece, perfettamente, le linee portanti della politica estera americana e le ambizioni di edificare un ordine mondiale unipolare. La rottura con la Russia per il controllo dell’Eurasia, che ricalca ad litteram il canovaccio illustrato da Brzezinski nel 1997, fa parte di questo copione. Esattamente come l’abbandono del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale e di conseguenza dell’Europa mediterranea e balcanica al loro destino, rientrano nel progetto del «World Order» statunitense. Un progetto che vede nella crescita economica, militare, demografica, finanziaria della Cina il suo principale avversario a medio termine.
Per vincere questa partita, Washington è determinata a sbarazzarsi di un ipotetico «nemico alle spalle», come la Russia, fingendo di ignorare che l’offensiva tattica di Putin in Ucraina nascondeva in realtà una difesa strategica, perché Mosca, dopo il dicembre 1991, indebolita sul piano economico e demografico e di conseguenza neppure lontanamente paragonabile all’Unione Sovietica per quello che riguarda la potenza del suo apparato militare-industriale, è indubbiamente sulla difensiva nella politica mondiale. Sempre per guadagnare la posta di questo nuovo «grande gioco», Obama si è dimostrato pronto a depotenziare il fronte sud della NATO e a condannare l’arco di crisi che va dal Levante alla Libia agli orrori di un conflitto interreligioso interminabile e i suoi alleati agli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le incontrollate e incontrollabili ondate migratorie di massa stanno provocando.
Tutto ciò costituisce per il Presidente americano un prezzo accettabile, se questo costo consentirà alla superpotenza atlantica di concentrare in Estremo Oriente il grosso delle sue forze in attesa dell’Armageddon che dovrà a opporla a Pechino. Uno scontro, che se si verificherà, dovrà essere rubricato anche come la conseguenza della strategia dell’«american pivot to Asia» inaugurata proprio da Obama tra 2010 e 2011.
Intervista di Giacomo Gabellini
(Pubblicato il 19 luglio 2016 – © «L’Indro»)