di Giovanni Belardelli
Il piccolo libro di Gustavo Corni su Fascismo. Condanne e revisioni (Salerno, pp. 126, € 12,00) affronta un tema di grande rilievo: la forte contiguità o sovrapposizione tra studi storici e politica, che proprio riguardo al fascismo è stata in Italia particolarmente rilevante. Ma lo fa in un modo che lascia a dir poco perplessi.
I primi capitoli consistono in gran parte nell’esame di alcune importanti opere su fascismo e Resistenza. Si tratta di un’esposizione non priva di interesse: ad esempio, l’analisi delle principali storie del fascismo di ispirazione marxista fa emergere la difficoltà che ebbe tanta nostra storiografia ad allontanarsi dagli schemi della Terza Internazionale, che collegavano a filo doppio il fascismo ai grandi gruppi capitalistici. Ma non mancano le lacune. Se si dedica tutto un capitolo alla importante storia della Resistenza di Roberto Battaglia, si dovrebbe anche ricordare come quel libro, prima della pubblicazione nel 1953, fosse stato letto e corretto dal leader comunista Luigi Longo. Stupisce poi l’assenza, tra le opere esaminate, della Storia d’Italia nel periodo fascista di Giovanni Mira e Luigi Salvatorelli, che ebbe una grande influenza nel diffondere il paradigma antifascista che Corni analizza. Si tratta, in questo e altri casi, di esclusioni che tanto meno si giustificano poiché si è invece trovato il modo di dedicare spazio a episodi marginali, come la contestazione di Craxi col lancio delle monetine fuori dell’hotel Raphaël nel 1993: un fatto che, con l’argomento del libro, c’entra poco o nulla. Sono tutte tracce di una certa frettolosità che forse va posta anche in relazione con il fatto che il volume deve essere stato pensato in origine per un pubblico non italiano, come indicano certi chiarimenti del tutto superflui su chi sia Berlusconi, chi fosse Montanelli, cosa è stata Tangentopoli e così via.
Il libro cambia tono e carattere quando arriva ad occuparsi delle opere di Renzo De Felice, che, dopo un’iniziale esposizione all’apparenza neutra, sono in realtà sottoposte a un esame di «correttezza politica». Ovviamente Corni non nega (e come avrebbe potuto?) l’importanza della vera e propria rivoluzione storiografica di cui De Felice fu protagonista, ma a lui imputa d’essersi fatto troppo guidare da intenti politici («i panni dello studioso sine ira et studio… gli erano sempre stati stretti»). Gli rimprovera addirittura di aver «liquidato in poche pagine» la Repubblica sociale italiana, quando è noto (e Corni lo aveva ricordato in altra parte del libro) che l’ultimo volume del Mussolini defeliciano dedica poco spazio alla Rsi perché l’autore era morto prima di poter terminare il volume. Perfino un’affermazione ovvia di De Felice, come il fatto che «antifascismo» e «democrazia» non si equivalgono (ovvia, perché non tutti gli antifascisti erano democratici, come dimostra ad abundantiam il caso di Stalin) viene considerata da Corni un’ulteriore prova a carico.
Ma appunto, a mano a mano che si avvicina alla fine, il pamphlet acquista i caratteri della requisitoria, per giunta non suffragata da prove. Afferma ad esempio Corni che Ernesto Galli della Loggia, dopo e in conseguenza dei suoi studi sfociati nel volume La morte della patria, avrebbe «salutato il (primo) governo Berlusconi come l’alba» di una nuova stagione politica. L’onere di scoprire dove e quando l’abbia detto viene lasciato però al lettore; in realtà sarebbe bastato rileggere un suo editoriale sul «Corriere della Sera» del 26 gennaio 1994 per vedere come fin dal titolo (No cavaliere) Galli della Loggia desse invece un giudizio negativo sulla discesa in campo di Berlusconi. Naturalmente, anche Giampaolo Pansa, l’autore del Sangue dei vinti, riceve la sua buona dose di critiche, senza che Corni riesca ad apprezzare come quel libro abbia contribuito a infrangere il tabù che per decenni aveva reso sospetto ogni riferimento alle uccisioni perpetrate da partigiani comunisti dopo il 25 aprile 1945.
Purtroppo, in questi e altri casi, Corni appare animato da una strabordante intenzione polemica che richiama certa storiografia degli anni Settanta, quando uno storico poté definire l’Intervista sul fascismo di De Felice un libro che rischiava di produrre «tra i giovani… guasti assai gravi» (Nicola Tranfaglia). Ma si tratta di tempi che, nonostante questo pamphlet, sono e restano (per fortuna) lontani.
(Pubblicato il 26 ottobre 2011- © «Corriere della Sera»)