di Giuseppe Santarsiere
Un’agenzia di rilevamento di dati statistici, ha pubblicato uno studio ove si afferma che negli anni successivi alla tragedia dell’undici settembre a New York, uno dei termini più ripetuti, dai media, quando si parla di attentati, è kamikaze. Adoperare questa parola per definire le azioni terroristiche degli integralisti islamici è discutibile e poco opportuno. L’uso frequente e improprio del termine kamikaze è un classico esempio di metonimia che la retorica classica definisce come: “tropo che denomina un’entità mediante un termine che originariamente si riferisce ad altra entità significante ad essa strettamente attinente”. Si tratta di un errore lessicale lieve, ma è pur sempre un’imprecisione. Vediamo di fare chiarezza sul termine.
La parola kamikaze è formata da due termini: kame che è il nome di una divinità scintoista, e kaze che significa genericamente vento. Un vento dunque, la cui traduzione letterale esatta è: il vento dello spirito. Questo vento ha sempre portato fortuna al Giappone a differenza di un altro, il kamakaza che si discosta solo di due vocali dal primo e che si traduce letteralmente come: vento che falcia. La triade dei venti impetuosi alle latitudini giapponesi, si completa con il kamaitaki: che taglia come un coltello. Questo excursus semantico-meteorologico è coerente con il tema. Il vento dello spirito giapponese, quindi, ha poco a che vedere con la ventata terroristica attuale che ispira i martiri d’Allah, o Shahid, come al Qaeda stessa ama definire i suoi adepti suicidi (quindi non kamikaze). Da dove viene fuori, quindi, il termine kamikaze? Facciamo un salto nel passato.
Il 15 ed il 16 agosto del 1281, una flotta di 4.400 navi, sulla quale era imbarcata la poderosa armata di Kublai Khan, erede e nipote di Gengis Khan, forte di 140.000 uomini, era schierata in ordine di attacco di fronte all’isola di Takashima. I generali mongoli avevano ricevuto ordini per la conquista e la sottomissione del Giappone potenza che non aveva mai subìto in precedenza nessuna invasione straniera. Tuttavia le spade dei samurai, le temibili katana, rimasero nei foderi e non ci fu battaglia. Un fortissimo vento monsonico sospinse le navi nemiche sulle vicine rocce e tutto l’esercito mongolo che era composto anche da coreani e cinesi si disgregò. Affogarono più di 70.000 soldati e il Giappone fu salvo. Marco Polo accenna nel Milione l’avvenimento, quando narra la storia del Grande Khan, signore della Cina.
Il vento kamikaze che nella stagione estiva soffia dal mare verso terra, era stato il migliore alleato dei samurai. Recentemente l’archeologo Kenzo Hayashida, dopo una campagna di ricerche mirate, eseguita con sommozzatori giapponesi esperti, ha rinvenuto sui fondali del porto di Kozachi, i resti della flotta dei mongoli di Kublai, distrutta dalla tempesta 700 anni addietro.
Sessanta anni fa, l’ammiraglio americano William Nimitz, quel vento che i giapponesi hanno chiamato divino, lo subì con tutta la forza devastante sulla coperta delle navi della sua flotta, ma non si trattava di un evento meteorologico. Molti film di guerra statunitensi hanno mostrato bene le disastrose conseguenze degli attacchi aerei dei piloti del Sol Levante. Gli americani ebbero trentotto navi distrutte dagli attacchi dei piloti suicidi nel 1945. Però c’e una bella differenza tra i giovani giapponesi suicidi e i martiri di al Qaeda.
Per precisione e amore della verità storica, visto che il termine kamikaze è tanto utilizzato (e abusato) è opportuno chiarire che i piloti suicidi si comportavano come gli antichi samurai. Decollavano per l’ultima missione con la spada posta tra la cloche e la manetta del motore osservando il codice d’onore del Bushido, il rito dei guerrieri medievali. Oltretutto non si definirono mai letteralmente kamikaze. Di questo termine non esiste una sola traccia nelle numerose lettere che lasciarono ai loro familiari nel momento dell’ultimo congedo dalla vita. Questi giovanissimi piloti erano inquadrati in un Corpo Speciale d’Attacco, organicamente diviso in quattro sezioni riferite alla dislocazione degli aeroporti del Pacifico, denominate: Shikishima (arcaica forma della parola Giappone); Yamato (antico nome del Giappone); Ashaki (sole che sorge) e Yamazakura (fiore del ciliegio di montagna). Almeno all’inizio della costituzione dei reparti suicidi, non si trova alcun riferimento esplicito alla parola giapponese kamikaze. Solo in un secondo tempo, nel 1945, quando ormai la sorte del Giappone era compromessa dall’esito della guerra, avendo perduto le più decisive battaglie aero-navali del Pacifico, il comandante in capo dei piloti suicidi, l’ammiraglio di Divisione Takijiro Onishi, che si suicidò facendo harakiri (e anche qui, i nipponici non dicono karakiri, bensì sepuku), subito dopo aver appreso per radio dalla voce dell’imperatore del Giappone la notizia della resa, dette il nome alle Unità di attacco suicide: shimpu.
Questo il nome che ancora oggi in Giappone è attribuito a coloro che noi oggi chiamiamo impropriamente kamikaze.
E’ interessante però notare che la stessa parola shimpu, a seconda di come la si pronuncia, è un fonema che può anche indicare gli ideogrammi della parola kamikaze. Il funambolismo linguistico, perfettamente coerente alla mentalità nipponica di quegli anni, s’inquadra nelle forme di rispetto reverenziale e nella modestia formale, onde evitare il paragone e il richiamo esplicito a quel vento divino, ovvero il kamikaze, del quale oggi i media fanno così disinvoltamente e abbondantemente improprio uso. Stranamente, sempre per essere quanto più possibile precisi in quest’argomento, emerge dalla storia della guerra giapponese,un particolare interessante. Proprio l’imperatore Hirohito, riverito come una divinità, in giapponese, il Tenno, il Mikado, la Guida del celeste impero, in un suo messaggio ufficiale rivolto proprio ai reparti di aviazione suicida, quindi destinato a essere reso pubblico, inserì tra gli elogi agli shimpu, la frase seguente, di strana ed emblematica lettura : “era proprio necessario giungere a questi estremi?”.
Molti storici si sono esercitati a dare un’interpretazione esatta di questa riserva espressa. Qualcuno sostiene che l’imperatore Hirohito, ebbe la sensazione che la guerra era irrimediabilmente perduta di fronte a quegli estremi sacrifici.
I giapponesi, attualmente, soffrono per la reiterazione di questa loro parola purtroppo molto diffusa (impropriamente) e accostata ai fatti recenti di terrorismo, che oltretutto richiama alla mente di tutti un passato doloroso della loro recente storia segnata per sempre dalle cicatrici dell’arma atomica, passato triste che essi vogliono esorcizzare e rimuovere. Proprio il 6 agosto 2005 è stato il sessantesimo tragico anniversario della bomba su Hiroshima. Il Giappone ha perciò rinunciato per legge anche al ricordo e alla celebrazione della passata potenza militare che per secoli è stata motivo d’orgoglio nazionale.
Alcuni deputati nipponici hanno assunto però alcune iniziative per difendere e differenziare in un certo modo questo termine che per alcuni giapponesi rappresenta ancora un periodo bellico sfortunato, ma anche pieno di atti d’eroismo compiuti da soldati in buona fede a difesa della patria. Nondimeno, proprio a seguito di un episodio, risalente a qualche anno fa (in cui il tribunale di Fukuoka, ha dichiarato censurabile e contrario alla Costituzione nipponica il gesto compiuto dall’ex premier giapponese Junichiro Koizumi, accusato di essersi recato in veste ufficiale al tempio scintoista nel cimitero Yasukuni, nell’antica città di Kyoto, ove, oltre alle lapidi che ricordano i giovani shimpu, sono sepolti anche alcuni alti ufficiali dell’esercito e della marina del passato regime condannati per crimini di guerra) oggi nessuno in Giappone si azzarda a riaprire la questione del passato bellico, per evidenti motivi di opportunità politica.
Tuttavia si sono verificati episodi sconosciuti nel corso della guerra, in cui l’aviazione militare giapponese si comportò nei confronti del nemico di allora in modo ineccepibile, dimostrando un comportamento dei giovani piloti, che si potrebbe definire cavalleresco.
Pochi sanno che nelle operazioni aero-navali contro la forza navale “Z” inglese, formata dalle due corazzate: la Prince of Wales e la Repulse, navi che furono affondate dopo un’ora di formidabili attacchi da parte degli aerosiluranti e dei bombardieri con le insegne del Sole nascente, operazioni, che dal punto di vista tecnico militare forse sono state anche superiori per abilità a quelle di Pearl Harbor. In quell’occasione, i piloti dei caccia Zero nipponici, dopo l’affondamento delle navi, sorvolarono lungamente il mare dove si era svolta la battaglia e non mitragliarono i caccia torpediniere britannici impegnati nelle operazioni di soccorso. Così la marina inglese riuscì a salvare ben 1800 marinai naufraghi delle due corazzate. I piloti di marina nipponici erano consapevoli che il prezioso capitale umano britannico poteva essere impiegato contro il Giappone per altre operazioni eppure non aprirono il fuoco sui facili bersagli inermi. Questo episodio è stato ricordato in una trasmissione televisiva da uno dei marinai inglesi sopravvissuti all’affondamento.
Solo nel 2006 sono state pubblicate le memorie di un asso dell’aviazione di marina giapponese, deceduto nel 2000. Gli appassionati di aviazione e gli storici del conflitto nipponico-americano conoscono il nome del Guardiamarina Saburo Sakai. Sessantaquattro aerei americani abbattuti (altre 21 vittorie furono attribuite all’azione collettiva di squadriglia), e sei gravi ferite riportate in combattimento. Le ultime missioni, nel 1945, mentre volava da capo formazione di una squadriglia di shimpu le effettuò avendo un solo braccio e cieco di un occhio. Egli non riuscì a portare a termine l’attacco suicida perché il motore dell’aereo sul quale volava, quasi un rottame imbottito di esplosivo, piantò nei pressi di un atollo del pacifico e lui riuscì miracolosamente a salvarsi. Ciò che lascia esterrefatti, leggendo il suo libro, è apprendere un particolare sorprendente. I piloti suicidi, per la maggior parte, non erano affatto volontari. Ubbidivano agli ordini degli Stati maggiori. Interi Gruppi Caccia Zero e Mitsubishi e squadroni di Bombardieri Tenzan, si immolarono per far fede al giuramento di fedeltà al Mikado. Per avere un’idea dell’etica militare giapponese, soprattutto quella della Marina imperiale, per la prima e unica volta, nel marzo del 1945, il bollettino fece il nome di due piloti, quello di Saburo e di un maresciallo, Shoichi Sugita. In particolare, il grado di sottotenente Saburo Sakai lo ebbe solo dopo undici anni di servizio, essendo entrato nell’aviazione di marina, da sergente, nel 1934.
Allora, nonostante tutte le ricerche etimologiche sul termine, i riferimenti storici, i sofismi retorici e lessicali e le precisazioni, ci si dovrà in ogni modo abituare all’idea che chi si fa esplodere in un autobus affollato da gente inerme, o fa esplodere una bomba in una strada affollata in qualsiasi parte del pianeta, continui a essere definito dai media kamikaze, in analogia terminologica (inesatta) a quei combattenti giapponesi che concludevano la loro tragica picchiata suicida sulle portaerei americane. Quelle navi da guerra, però (e tutta qui sta la differenza), si difendevano con sistemi di avvistamento radar, erano protette da molte squadriglie di aerei da caccia armati e inoltre disponevano di una selva di cannoni a tiro rapido dell’artiglieria contraerea navale.