di Eugenio Di Rienzo
La pace non la guerra, questo il rovesciamento di prospettiva che propone Sergio Valzania in un saggio che coniuga approfondimento ad alta divulgazione: Fare la pace. Vincitori e vinti in Europa (Salerno Editrice, pp. 134, € 12,00). Obiettivo del volume è di tracciare «un percorso non convenzionale», partendo dall’assunto che, se la fase della soluzione dei conflitti e la ricerca di nuovi assetti di convivenza sono abitualmente trascurate, la loro importanza non è minore rispetto al momento dello scontro tra organismi statali. In un lungo e ambizioso excursus, che va dalla Grecia classica, alla pace di Westfalia del 1648, alla conferenza di Washington del 1921, dove, per la prima volta, si cercò di porre le basi di una globale riduzione degli armamenti, Valzania vuole dimostrare che la neutralizzazione delle pulsioni aggressive non è stata un momento di pausa tra una guerra e l’altra, ma che essa ha, invece, costituito il filo rosso attraverso cui leggere la storia europea e quella del mondo.
Qui, però, gli sforzi dell’autore naufragano sullo scoglio delle buone intenzioni e, anche in questo caso, la collana «Aculei», diretta da Alessandro Barbero, che ospita questo lavoro, dimostra di avere le unghie spuntate. Cosa, infatti, c’è di realmente innovativo nell’affermare «che la pace rappresenta un obiettivo da conquistare con determinazione, pazienza, perseveranza e che essa costituisce il più grande successo politico che un uomo di Stato possa mai conseguire»? Non mi pare, infatti, che i grandi conquistadores del passato (Carlo V, Luigi XIV, Napoleone), che sconvolsero l’Europa con le loro ambizioni imperiali, si fossero proposti un obiettivo diverso di quello di costruire una pace non solo duratura ma eterna. Né altrimenti operò Hitler con il suo programma di un «nuovo ordine» continentale, finalizzato a far tacere, per sempre, le armi, una volta distrutti i nemici politici e razziali del Reich. Spesso la pace, come intuì un grande militare prussiano, Helmuth von Moltke, equivalse alla «pace di un cimitero» e contro di essa fu necessario ricorrere alla sacrosanta violenza per riconquistare almeno i livelli minimi della civiltà.
Diversamente da Valzania e dai seguaci della «grande illusione» pacifista, ritengo, infine, che la pace non sia stata mai altro che la continuazione della guerra con altri mezzi e che ogni periodo di pacificazione sia stato soltanto un momento in cui il conflitto, da aperto e dispiegato, si trasformò in contesa sorda e non dichiarata. Ieri, quando il lungo periodo di quiete che pose fine alle conquiste napoleoniche, fino alla metà del XIX secolo, fu contraddistinto dalle «piccole guerre» combattute dall’Inghilterra, nel Vecchio e nei nuovi Continenti, per edificare il suo Impero Mondo. Oggi, quando grandi gruppi bancari, favoriti dalla colpevole inerzia di Bruxelles e dal miope nazionalismo economico della Germania, combattono una guerra di mercati che non fa morti ma che produce recessione, disoccupazione, scontro sociale, pauperizzazione, schiavitù economica. Una guerra condotta senza mezzi di distruzione di massa ma che persegue l’antico obiettivo di annientare materialmente e moralmente i vinti per trasformarli in una massa obbediente di sudditi privi di ogni diritto politico, disposti ad accettare la reggenza di un «Lord Protettore» nominato da altri. La domanda che risuona ora nel nostro mondo globalizzato non è diversa, in fondo, da quella che interpellò i nostri padri nel 1939. Se non si tratta più, infatti, di chiedersi se è giusto «morire per Danzica», è necessario sapere se s’intende combattere ancora per Madrid, Atene, Roma.