di Marco Demarco
E se rispondessimo all’imbecillità che ci minaccia con la malinconia che ci è propria? Il tema dell’imbecillità che potrebbe prendere Napoli in un momento particolarmente fortunato come l’attuale è stato posto con garbo, anzi, con estremo garbo, da Giuliano Ferrara sul Il Foglio. Ed è stato poi ripreso da altri, tra cui Massimo Adinolfi, Titti Marrone e Guido Trombetti, su Il Mattino. L’idea del possibile antidoto, invece, viene dall’aver appena apprezzato l’ultimo libro di Aurelio Musi, Malinconia Barocca, edito da Neri Pozza. È dunque solo frutto di una suggestione, nulla di più. Ma come diceva Croce e come, concordando, anche Gramsci pensava, la storia è sempre storia contemporanea, cioè aggiornata dalla coscienza del presente. Per cui una forzatura in chiave attualistica di un testo rigorosamente storico, seppure inerente una storiografia nuova e sfuggente come quella delle emozioni, in cui Musi eccelle, può certo risultare arbitraria, ma – si spera – non del tutto irricevibile.
Il terzo scudetto e la festa
Ferrara, commentando la festa per il terzo scudetto azzurro e premettendo, come si è detto, parole amorevoli per Napoli, per la festa che la anima da mesi, e anche per il suo ricorrere insistente alla paganizzazione del religioso e alle santificazioni laiche, alla fine cita Charles Baudelaire. Diari intimi, 23 giugno 1862: «Ho coltivato il mio isterismo con godimento e con terrore. Ora ho sempre le vertigini e oggi ho subito un singolare avvertimento: ho sentito passare su di me il vento dell’imbecillità». Vuol dire, esplicita Ferrara, che Napoli non ha una naturale predisposizione alla temuta patologia, ma che ora «ha sempre le vertigini» e perciò farebbe bene a guardarsi da quel vento frequente e insidioso.
Il Barocco e l’oggi
Aurelio Musi ha invece scritto un libro teso a contrastare l’idea di un’epoca, quella a cavallo tra l’Illuminismo e il Romanticismo, riconducibile all’unica dimensione della decadenza estetica e morale. E la prima curiosità che viene leggendolo non è relativa al «perché», perché un libro sulla malinconia e per giunta specificamente nell’età Barocca, quando piuttosto al perché ora. Che poi si porta dietro, per noi che lo leggiamo a Napoli, anche un’altra implicazione, ovvero che non solo il presente, non solo il «quando», ma anche il «dove» conta nel sentire la storia. Insomma, oggi siamo in un’epoca che per molti versi rimanda alla teatralità e alle esagerazioni del Barocco. E siamo anche travolti da una forte accelerazione di fatti e percezioni, per cui viviamo un’incertezza, anche questa avvertita come già vissuta, nel definire i confini dell’inganno e della verità. In più, siamo nello stesso «dove» di Torquato Tasso e di Giovan Battista Marino, che è poi lo stesso di Artemisia Gentileschi, vale a dire dei protagonisti assoluti del nostro Barocco. E l’impressione, rileggendone le vicende e i tormenti, è come se ognuno di loro volesse ancora dirci qualcosa. La loro malinconia, in fondo, altro non è che il conflitto tra progetti e fallimenti a cui Cervantes ha dato i tratti eterni di don Chisciotte. È qualcosa che «si insinua tra ordine e disordine e sposta verso l’infinito – dice Musi – il passaggio dalla tensione alla risoluzione». La malinconia è ciò che garantisce il controllo delle proprie passioni senza negarle. Da qui l’attualità del libro. Un’attualità che il «perché», il «quando» e il «dove» esaltano oltre ogni prevedibile misura. Napoli è in un momento particolare. Lo scudetto, i turisti, l’esposizione mediatica, gli emergenti delle fiction, come The Jackal su Amazon Prime, o dei festival delle idee, come Djarah Kan, applaudita ospite di «Repubblica» a Bologna. Napoli si sta immaginando, vede come è vista, si commuove per come gli altri la omaggiano, ad esempio Noa al Maradona; e prefigura come potrebbe essere anche al di là del momento. Nel fare questo, nel profilarsi come se fosse un unico organismo, la città mette insieme fantasie e dati di fatto, crede e lascia credere. Simula e dissimula. «È del poeta il fin la meraviglia»: non è diventato indimenticabile per questo Giovan Battista Marino? Il rischio, però, è che poi, presa dallo spirito del tempo, la città finisca davvero per credere che tutto sia vero, il reale e il fantastico, il concreto e il virtuale. E che, come può bastare un clic per risolvere ogni problema, secondo la tesi dei soluzionisti tecnologici e di quelli che hanno fede negli algoritmi, possa con uguale efficacia bastare una preghiera a San Gennaro o una invocazione a Maradona per fare della Napoli emergenziale il migliore dei mondi possibili. Avremmo così una sorta di soluzionismo alla rovescia, primitivistico; una involuzione antropologica, qualcosa di utile alle élite in difficoltà quando più forte dovesse farsi la pressione popolare. Ecco cosa potrebbe nascondersi dietro l’angolo. Ed ecco, allora, la malinconia come antidoto. La malinconia che non è mai una malaparola e non è sempre una malattia. La malinconia che ha a che fare con il senso del limite e, per certi versi, con la verità, perché il malinconico sa che il sole che muore è lo stesso che risorge.
(Pubblicato il 27 giugno 2023 © «Corriere della Sera» – Napoli)