di Paolo Simoncelli
Una guerra locale, lontano dall’Europa, oggi appare, più della successiva guerra di Spagna, l’innesco del secondo conflitto mondiale. Questo il nocciolo duro delle tesi contenute ne Il «Gioco degli Imperi». La Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale (Società Editrice Dante Alighieri, 2016): l’ultima fatica del ripensamento revisionistico delle relazioni internazionali della stagione fascista a cui da anni si dedica Eugenio Di Rienzo. Un ripensamento, iniziato, assieme a Emilio Gin, nel volume Le potenze dell‘Asse e l’Unione Sovietica 1939-1945 (Rubbettino, 2013), destinato a culminare nella biografia dedicata a Galeazzo Ciano alla quale Di Rienzo sta ora lavorando.
A temere, già alla fine del 1935, che il conflitto italo-etiopico potesse provocare una guerra mondiale era stato il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt. Meno lungimiranti i leaders europei, la cui aggressiva tradizione colonialista (manifestatasi in Italia già con Crispi con scarsi risultati, senza che poi ci fosse il superamento dell’angoscia collettiva provocata dalla sconfitta di Adua del 1896) consentiva illusoriamente di confinare quelle guerre solo ai teatri d’operazione extraeuropei.
Ma con l’Impero d’Etiopia, membro della Società delle Nazioni, «vendicare» Adua appunto e far «risorgere» i relativi eroi (secondo una delle canzoni che accompagnarono l’impresa di Libia nel 1911) era un problema internazionale non di poco conto. Anche se le «inique sanzioni», votate dalla Lega ginevrina, l’11 ottobre 1935, pochi giorni dopo l’inizio delle operazioni italiane nel Corno d’Africa, avrebbero visto un fronte diplomatico dividersi e giocare su più piani, secondo strategie ricostruite da Di Rienzo con attenzione non solo ai rapporti geopolitici ma anche agli scambi economici tra gli Stati, alla difesa di consolidati mercati all’acquisizione di nuove sfere d’espansione commerciale, ai rapporti di forza globali, all’incidenza della politica interna su quella estera (in particolare negli Usa, dove le minoranze cattoliche, polacca e italiana, non si potevano trascurare senza conseguenze elettorali).
Qui l’autore attua la ricomposizione di un mosaico molto complesso, con tessere reperite anche molto lontano dallo scenario africano e mediterraneo, dal Giappone all’Urss, due Potenze, protagoniste della rete internazionale di interessi con cui l’Italia di Mussolini dovette allora confrontarsi. Una ricomposizione non senza soprese. All’atteggiamento inizialmente poco amichevole verso l’Italia della Germania nazista, protesa verso un accordo antibolscevico con l’Inghilterra capitalistica e conservatrice, faceva riscontro, da subito, la benevola disposizione di Mosca verso il governo di Roma che si mantenne tale per tutta la durata del conflitto. Nel 1933, Russia e Italia avevano, infatti, stipulato un patto di cooperazione economica molto importante politicamente finalizzato a contenere l’espansionismo nazionalsocialista verso l’Austria, i Balcani, il bacino danubiano. A tutto ciò va aggiunta la spinta del mondo arabo a favore dell’impresa italiana, vista come portatrice di libertà religiosa per l’Islam in un’Etiopia, centro chiuso di un’antica, originaria tradizione cristiana fortemente connotata da sentimenti anti-musulmani.
Le vicende internazionali, ricostruite da Di Rienzo, tramite un’indagine sulle fonti diplomatiche a vasto raggio, offrono un concatenato seguito di quell’impresa vittoriosa sul piano militare (uno dei punti di maggior consenso sociale raggiunto da Mussolini) ma ne disvelano anche l’azzardo della concezione politica. A Londra, con il livore di Eden, alla guida del Foreign Office, giunto a preferire Hitler, per lealtà e visioni di politica estera, al «malfattore Mussolini», il «nemico comune» da fronteggiare fu individuato, anche dopo la fine della crisi etiopica, nella Russia comunista e nell’Italia fascista. Roma, da parte sua, spinta dalla necessità di assicurarsi il riconoscimento internazionale dell’Impero africano, fu costretta a svendere al Regno Unito, con la sigla degli Accordi di Pasqua del 16 aprile 1938, una parte delle sue posizioni di presenza politico-culturale in Medio Oriente, dove il mondo arabo era pronto a una sollevazione generale anti-britannica alla quale la questione ebraico-palestinese aveva dato esca.
Eppure, ricorda Di Rienzo, non per questo la politica estera italiana, guidata dal Duce e da Ciano, imboccò allora un corso obbligato verso la Germania nazionalsocialista. Tutt’altro. A fine gennaio 1939, quando giunsero a Roma, a colloquio a Palazzo Venezia, il Primo ministro Chamberlain e il nuovo Segretario agli Esteri, Lord Halifax (subentrato a Eden, dimessosi per protesta proprio contro la politica filo-italiana inaugurata dal governo britannico), tutti gli scenari internazionali di eventuali alleanze erano ancora possibili. Qui dunque Di Rienzo torna a ripetere, come già fatto in altre sue ricerche, che il problema dell’intervento in guerra italiano nel giugno del ’40, a tutt’oggi non è affatto chiaro. Né la dichiarazione di patente falsità del carteggio Churchill-Mussolini (s’intende di quello, fra i tanti, esaminato da Franzinelli, conservato presso l’Archivio di De Gasperi) risolve il problema: questa documentazione è certo falsa; ma la serie di documenti anche solo editi sui rapporti intercorsi tra Francia, Inghilterra e Italia per evitare la guerra, profilano altra possibile linea interpretativa. Mussolini faceva sì il viso dell’armi a quanti si presentavano con proposte di pace, ma a quarantotto ore dalla dichiarazione di guerra, l’ambasciatore italiano a Parigi, Raffaele Guariglia, di fronte alle ultime insistenze francesi non nascondeva che «la necessità della ricostruzione europea», obiettivo del Duce, poteva raggiungersi anziché coi tempi lunghi d’una normale evoluzione politica, anche attraverso la via accelerata d’una guerra. Una guerra tutta particolare, solo formale forse, perché le movenze operative della Wehrmacht per lo sfondamento fronte francese erano già state comunicate, con largo anticipo, da Ciano al Belgio e all’Olanda tramite la Segreteria di Stato vaticana.
(Pubblicato l’8 maggio 2016 – © «Avvenire»)