di Giovanni Belardelli
Nei manuali di storia il nome di Marco Minghetti compare di solito di sfuggita, tra quelli degli esponenti della cosiddetta Destra storica ai quali toccò di governare il Paese dopo l’inattesa scomparsa del conte di Cavour il 6 giugno del 1861. Ma Minghetti, oltre che presidente del Consiglio, fu anche autore di testi politici importanti e di respiro europeo. Già solo per questo appare assai opportuna la ripubblicazione di alcuni suoi scritti curata ora da Raffaella Gherardi, in un volume che fin dal titolo (Il cittadino e lo Stato, Morcelliana) ha al centro un tema classico della riflessione liberale, quello del rapporto tra libertà individuale ed estensione dell’intervento statale.
Sulla questione esistevano all’epoca due posizioni opposte. La prima, che Minghetti esamina sulla scia di un volume di Herbert Spencer, L’individuo e lo Stato, considerava negativamente ogni e qualunque intervento pubblico (al di là di sfere come la giustizia, la difesa dell’ordine pubblico, la politica estera, ecc.). Questo perché riteneva che fosse il singolo individuo il più efficace giudice del proprio interesse e che, correlativamente, l’interesse privato e quello pubblico coincidessero. Al contrario, la seconda posizione invocava continuamente l’intervento dello Stato, che si trovava così sollecitato «ad ogni richiesta apparire sulle scene, sciogliere tutte le difficoltà e provvedere a tutti i bisogni».
Minghetti si collocava su di una posizione intermedia, ritenendo che quando l’interesse privato e quello pubblico entrano in conflitto, quando ci si trova di fronte ad attività che nessun privato giudica conveniente svolgere, è allora opportuno l’intervento statale. Un tale intervento, però, ha due precisi limiti: non deve sostituire ma soltanto integrare l’iniziativa privata (Minghetti usa il termine «sussidiario») ed avere un carattere temporaneo. Questo vuol dire che lo Stato può assumere certi compiti e funzioni, ma nell’attesa che singoli cittadini o associazioni siano capaci di assumerli in proprio. Fatte le debite differenze tra l’Italia di oltre un secolo fa e quella di oggi, non sono problemi a noi del tutto estranei. Potremmo anzi dire che oggi, con un intervento pubblico enormemente più esteso che all’epoca di Minghetti, appare perfino di maggiore attualità la sua preoccupazione che l’intervento dello Stato nella società e nell’economia possa «creare aspettative smisurate e scemare nei cittadini il senso della responsabilità».
Proprio quest’ultima preoccupazione mostra come il liberalismo di Minghetti, per quanto disponibile a giustificare in determinate condizioni l’intervento dello Stato, vi guardasse però con un atteggiamento fondamentalmente sospettoso, nella convinzione che il protagonista dell’azione sociale non possa essere lo Stato e che il progresso di un Paese dipenda essenzialmente dalla libera attività degli individui, singoli o raccolti in associazioni. È proprio una posizione del genere che spiega la sfortuna che le sue idee hanno avuto nella cultura politica italiana, propensa ad apprezzare assai di più un liberalismo come quello degli hegeliani di Napoli, i quali ponevano al centro lo Stato che – come scriveva Silvio Spaventa – «ci comanda, ci obbliga e ci sforza al bene comune », è anzi «il nostro volere stesso».
Lo osservava anni fa Nicola Matteucci per spiegare appunto la scarsa circolazione che il pensiero di Minghetti ha avuto in un Paese come l’Italia, incline a prediligere le correnti stataliste. Forse è anche a questa predilezione – che ha caratterizzato il fascismo ma anche la sinistra marxista, per la quale lo Stato era il grande artefice dell’eguaglianza – che dobbiamo l’esito singolare di uno Stato al contempo onnipresente e inefficiente. Due caratteristiche tra le quali Minghetti avrebbe sicuramente stabilito un rapporto.
(Pubblicato il 17 maggio 2011 – © «Corriere della Sera»)