di Stefano Folli
Si dice a ragione che le premesse della seconda guerra mondiale furono poste con gli accordi di pace che conclusero la prima. La miopia delle potenze vincitrici nei confronti della Germania è portata ad esempio di come non si deve trattare un paese sconfitto, gettando il seme della rivalsa. Questo interessante saggio di Paolo Soave pubblicato da Rubbettino conferma che analoghi errori furono commessi nella conferenza di Parigi a danno dell’Italia: con la differenza che Roma sedeva tra le capitali che avevano vinto il conflitto. E per sedersi a quel tavolo, accanto a Francia e Gran Bretagna, l’Italia si era molto esposta. In primo luogo aveva pagato un prezzo enorme in termini di vite umane. E poi aveva compiuto, come è noto, un’operazione politico-diplomatica alquanto spregiudicata, rompendo la Triplice Alleanza ed entrando in guerra accanto ai nemici del giorno precedente, Londra e Parigi.
Poche promesse furono mantenute ed esse riguardavano principalmente il riconoscimento dell’area adriatica e balcanica come zona d’influenza italiana, attraverso annessioni territoriali (la Dalmazia oltre all’Istria) e protettorati (l’Albania, di fatto il Montenegro). C’erano poi i possessi o le concessioni nel mar Egeo (il Dodecanneso) e in Asia Minore, nonché l’allargamento dei confini coloniali in Africa. Fu accordato invece lo spostamento della frontiera nord fino al Brennero, includendo l’Alto Adige.
Soave dimostra che Francia e Gran Bretagna trattarono l’Italia con la degnazione con cui ci si rivolge a un partner minore, mai considerato all’altezza delle due potenze che ancora si ritenevano padrone dei destini mondiali. In seguito l’Italia ottenne parziale soddisfazione nelle sue richieste, ma fu impresa ardua riuscirci. Rimase il senso di frustrazione che alimentò la suggestione della “vittoria mutilata” e con essa la volontà di rivincita verso l’Europa di allora di cui si farà interprete Mussolini, incontrando il favore dell’opinione pubblica.
(Pubblicato il 4 luglio 2020 © «la Repubblica»)