di Ernesto Galli Della Loggia
Non è solo l’economia. Come ho detto in un precedente articolo (Corriere del 7 marzo), il fattore che in specie nei Paesi del nostro continente sta mettendo nell’angolo la politica, rendendola in molti casi irrilevante, ancor più dell’economia è la perdita (consapevolmente quanto incautamente accettata) di sovranità da parte dello Stato nazionale. Perdita particolarmente sensibile in questa parte del mondo, dove essa avviene, come si sa, sotto la regia incalzante, e a favore, dell’Unione Europea.
Ma c’è di più: perché, alla lunga, l’assottigliamento della sovranità nazionale rischia di privare della sua ragion d’essere la stessa democrazia, la stessa sovranità popolare: dal momento che questa non è pensabile che nel quadro dello Stato sovrano. Perché esista la sovranità della nazione, infatti, e dunque l’idea dell’autogoverno, e quindi il meccanismo della rappresentanza, è necessario che esista preliminarmente uno Stato dotato degli attributi della piena autonomia e del comando. Alla fin fine – come ha spiegato bene uno studioso francese, Pierre Manent – il volere delle maggioranze non potrebbe nulla senza il potere dello Stato sovrano. Sia logicamente che storicamente la sovranità popolare presuppone quella statale, e si costituisce facendosene l’erede. Non basta: per capire quale intreccio vi sia tra democrazia e statualità si pensi solo al fatto che è proprio in relazione alla forza minacciosa dello Stato sovrano che si è affermata la necessità «difensiva» costituita vuoi dalla divisione dei poteri dello stesso Stato, vuoi dalla garanzia dei diritti individuali di libertà.
È sempre l’idea di nazione, infine, è sempre l’esercizio della sovranità popolare direttamente derivata da quella dello Stato, che ha rappresentato il presupposto storico che prima o poi è valso a porre all’ordine del giorno in tutti gli Stati nazionali il grande tema dell’eguaglianza delle condizioni tra tutti i cittadini. Come traguardo magari irraggiungibile, ma non per questo meno necessario, di ogni democrazia. Da sempre la domanda posta dalla «nazione sovrana» è: si può far parte su un piede di parità di un medesimo corpo politico senza godere al tempo stesso di condizioni eguali? E può la sovranità della nazione sottrarsi al dovere di creare tali condizioni?
Democrazia e Stato nazionale sono cose per più aspetti sovrapposte. La spinta all’autogoverno non può nascere tra individui sparpagliati, che semplicemente «si conoscono». Può sorgere solo all’interno di una comunità data, di un demos per l’appunto, che si riconosca preliminarmente come tale. Cioè come un insieme di persone le quali – consapevoli di condividere un territorio, una storia, dei costumi, dei valori, e del legame che tale condivisione crea – decidono di volersi rendere padroni del proprio destino. Essendo poi in grado di mettere concretamente in pratica un tale autogoverno disponendo dello strumento indispensabile, cioè di un medium comunicativo adeguato, rappresentato da un comune linguaggio. Nazione significa precisamente tutte queste premesse dell’autogoverno democratico: un «noi» che ci fa cosa diversa dagli «altri». Allora qualcosa che esclude? Sì, in un certo senso. Ma né più né meno come esclude ogni legame sociale tra gli esseri umani: una coppia, una famiglia, un vicinato. Vogliamo forse mettere al bando anche queste cose perché non in regola con il «politicamente corretto»?
(Pubblicato il 12 marzo 2012 – © «Corriere della Sera»)