di Eugenio Di Rienzo
Tra i frutti che si indovinano non eccezionali del prossimo centocinquantenario dell’unità italiana, si potrà almeno contare la ristampa del volume di Benedetto Croce, Un famiglia di patrioti (Adelphi, pp. 179, € 13,00), da troppo assente dal nostro catalogo editoriale, che ci viene riproposto oggi accompagnato da una sapiente introduzione di Giuseppe Galasso. Si tratta di un saggio importante che mette in luce il congiungimento della «patria napoletana» alla più grande patria italiana, nell’arco temporale che va dalla fine del Settecento al 1866, attraverso l’esistenza di Giuseppe Poerio e del figlio Carlo. Il primo, giunto a Napoli dalla Calabria nel 1795, già impregnato della più aggiornata cultura europea, contribuirà alla vittoria della rivoluzione napoletana del 1799, si batterà contro la reazione sanfedista e, dopo un periodo di carcere duro nell’isola di Favignana, inflittogli con il ritorno di Ferdinando di Borbone, divorzierà dall’infatuazione giacobina dei suoi verdi anni per sposare posizioni di moderato costituzionalismo. Il secondo, più volte arrestato dalla polizia borbonica, anch’esso condannato all’ergastolo, concorrerà in prima persona alla trasformazione del partito liberale napoletano in partito liberale italiano.
In questo contributo, Croce, fedele alla sua concezione della «storia presente» (presente non per la sua bruta attualità temporale ma per le sollecitazioni morali, civili, politiche che destano nella sensibilità contemporanea problemi di epoche lontane e lontanissime nel tempo), parlava del passato per riferirsi all’oggi. La biografia dei Poerio, pubblicata per la prima volta nel marzo del 1919, è soprattutto un’impietosa biografia del liberalismo italiano, e particolarmente di quello meridionale, delle sue mancanze, delle sue debolezze, della sua inadeguatezza politica che si rivelavano nell’incapacità di assumere un ruolo egemonico nei confronti di quelle masse che il primo conflitto mondiale aveva proiettato come protagoniste sul palcoscenico della storia. Non casualmente, Croce, a proposito delle forze politiche che diedero vita al moto costituzionale del 1821, insisteva sulla «intrinseca debolezza» del loro programma «da riportare alla loro origine intellettuale» ossia alla loro formazione illuministica. Da ciò derivava un «tratto, ideologico e non politico che rimase loro caratteristico e che ne chiarisce in più punti la storia ulteriore», destinato a tramutarsi in una durevole limitazione strutturale di forza politica e sociale. Quel partito moderato, continuava Croce, «fin da principio fu un partito che non si originava dall’egemonia reale di una classe o di un potere sociale, capace veramente di dominare, sorreggere, ordinare e indirizzare le altre classi e poteri della nazione». Esso fu invece un movimento, animato sì da nobilissimi ideali, ma che si «mantenne astrattamente superiore al paese, nel quale gli toccava operare, ora estraneo e ignaro dei problemi reali di questo» e che finì per lasciare sguarnito il campo all’azione di altri uomini: «ultraliberali o democratici o sinistri, che meglio di essi si affiatarono con le plebi».
Nel novembre del 1919, i risultati delle elezioni politiche verificavano con crudele esattezza questa analisi. Quel verdetto delle urne seppelliva per sempre le pretese del «partito degli intellettuali» e di conseguenza ridimensionava drasticamente la compagine liberale, umiliata dall’irrompere impetuoso dei nuovi partiti di massa cattolico e socialista, che la sbalzavano dalla sua tradizionale posizione di forza maggioritaria. Si trattava di una vera e propria rivoluzione politica, che un altro liberale, Giovanni Amendola, avrebbe sintetizzato, parlando dell’ascesa irresistibile di formazioni «potentemente organizzate che rappresentano, nel campo parlamentare, i metodi strategici della Grande Guerra». In quella nuova congiuntura, nasceva infatti il «partito-milizia» e scompariva ogni margine di sopravvivenza «per gli individui e le pattuglie», incapaci di guadagnare il controllo delle moltitudini e «disporre di grandi forze».
Nonostante il monito tempestivamente lanciato da Croce, anch’egli non era riuscito comunque a liberarsi del tutto da una ristretta dimensione notabiliare della politica che malamente nascondeva un’ostilità irriducibile, quasi un odio di classe, per il «canagliume ch’è sempre pronto e disposto a tutto». Questa invettiva appassionata culminava in una sorta di apologia della giamberga: l’abito del ceto civile, il segno distintivo di quella borghesia delle province meridionali esposta al furore delle ricorrenti jacqueries agrarie. Nel saggio su De Sanctis e i suoi critici recenti vergato nel 1898 (uno dei numerosi scritti sull’autore della Storia della letteratura italiana pubblicati nella prima edizione di Una famiglia di patrioti, ora espunti dalla ristampa di Adelphi) Croce, contestando a Emilio Bertana le critiche mosse all’utilizzazione desanctisiana di alcune parole dialettali, scriveva:
«Lascerò al Bertana di segnare coi sic e gli ammirativi il “cacciar” per “cavar fuori”, e qualche altra parola che sa di dialetto. Ma lo pregherò di volermi far grazia della “giamberga”, di quella “giamberga” ch’è stata nelle provincie meridionali il simbolo della borghesia e ha valore storico, perché troppe volte al grido di “abbasso le giamberghe” si sono mossi i contadini e i proletari del Mezzogiorno, o nelle commozioni sanfediste o nei frequenti tumulti per le terre demaniali. Tolga la fortuna che l’Italia tutta non debba apprenderne dolorosamente il significato, come ha appreso testé quello dei carusi e dei cappeddi siciliani».
Il passo rimandava nel finale ad un altro esempio di mobilitazione popolare dell’Italia contemporanea (la rivolta dei Fasci siciliani del 1894), che sarà poi condannato da Croce non per le motivazioni economiche e sociali che la generarono, ma certo per la strategia scelta dai promotori, «idealisti e uomini generosi, taluno anche di carattere saldo e di purissima vita», che ebbero però il torto «di eccitare e tirarsi dietro masse ignoranti e inconsapevoli, credendo di potersene valere per attuare idee che quelle non comprendevano e dalle quali erano lontanissime». Maggiore comprensione per la partecipazione popolare attiva che si riscontrava in quelle nuove «insorgenze» avrebbe mostrato invece Gioacchino Volpe nel suo L’Italia in cammino del 1927, dove il ritratto di «una grande plebe ignara, generalmente rassegnata, ma ogni tanto animata da impeti ciechi di ribellione contro i “civili”», contro «l’altezzosità dei “borghesi” e dei “galantuomini”» era inserito nel più vasto quadro della «questione meridionale», ma anche nel processo di integrazione delle moltitudini rurali nella vita del paese che il movimento socialista andava compiendo nella drammatica «crisi di fine secolo».
Le gravi conseguenze di questa chiusura si palesavano nella mancata, e in ogni caso insufficiente, reazione liberale di fronte ad un altro, più potente, movimento di massa, come il fascismo che venne reputato dalla maggioranza dei legittimi eredi della tradizione risorgimentale (compreso lo stesso Croce, almeno fino al 1925) un’adeguata risposta alla situazione di endemica anarchia sociale, di ribellismo e di sovversivismo iniziata subito dopo la fine delle ostilità. Nel 1923, infatti, Gaetano Mosca avrebbe giustificato la presa di potere di Mussolini, considerando, come utile rimedio al disfacimento del vecchio Stato liberale, «un breve periodo durante il quale un governo forte e onesto eserciti molti poteri ed abbia molta autorità», al fine di preparare quelle condizioni che potevano rendere il ritorno al «normale funzionamento del sistema rappresentativo», così come era accaduto a Roma «nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura».
In questo tornante cruciale della storia italiana, il liberalismo italiano perse così la sua partita, proprio per la costituzionale incapacità dei suoi ceti dirigenti di attuare un rinnovamento in direzione nazionale e popolare della loro filosofia di riferimento e di trasformarla in un vigoroso «estremismo di centro». A proposito di questo accecamento politico, la primogenita di Croce, Elena, avrebbe coniato nel 1964 il termine di «snobismo liberale» in suo omonimo pamphlet, intendendo con quell’espressione la tendenza di una parte di quel ceto politico a prediligere «l’aria chiusa delle serre borghesi» pur di distogliere lo sguardo dal sorgere della società di massa che si levava dinnanzi ai suoi occhi «come un grattacielo».
È questa un’osservazione che dal secondo dopoguerra ad oggi ritrova intatta la sua attualità, dato che il distacco tra le élites meridionali e il loro popolo è stato sempre malamente surrogato dalla comparsa di personalità politiche demagogico-populiste: il «comandante Lauro» negli anni Cinquanta e poi il sindaco-governatore Bassolino che del laurismo ha costituito una semplice versione aggiornata. A tali uomini, quelle stesse élites hanno finito per concedere spensieratamente il loro consenso, perpetuando e aggravando il secolare malgoverno della loro terra.
(Pubblicato il 22 febbraio 2010 – © «il Giornale»)