di Maria Pia Forte
Alla nascita, nel 1808, ricevette il nome di Carlo Napoleone Bonaparte, al fonte battesimale divenne Luigi Napoleone, quando nel 1848 fu eletto Presidente della Repubblica si preferì spesso chiamarlo Luigi Bonaparte, proclamato nel 1852 – un anno esatto dopo il colpo di Stato del 2 dicembre – Imperatore della Francia, divenne tout court Napoleone III. Una proliferazione di nomi che sembra rispecchiare le molteplici facce e le tortuose manovre politiche del personaggio, su cui non a caso i giudizi dei contemporanei e dei posteri sono stati discordanti. Rivoluzionario liberale o spregiudicato opportunista, governante carismatico o dittatore, arbitro di un’Europa di cui costruì l’equilibrio rimasto immutato fino al 1918 o ambizioso avventuriero a cui non riuscì il disegno di rinnovare i fasti del grande zio Napoleone I (che, in qualità di padre adottivo di Ortensia, figlia di primo letto di sua moglie Giuseppina di Beauharnais, gli era anche nonno adottivo), fautore a partire dal 1856 del processo unitario italiano o suo «avversario»? Certo nessun paragone è possibile fra il trionfatore di Austerlitz e il terzogenito di suo fratello Luigi Napoleone re d’Olanda e di Ortensia di Beauharnais, a parte il fatto che anche Napoleone III conobbe la prigionia prima di spegnersi in esilio nel 1873. Se la socialista George Sand ne approvò il colpo di Stato e Chateaubriand lo ammirò, Victor Hugo lo soprannominò «Napoleone il piccolo» e Marx vide in lui una caricatura mediocre e grottesca del primo Napoleone.
Di quest’uomo che nel bene e nel male condizionò la storia dell’Ottocento abbondano le biografie; ne mancava tuttavia una, come fa notare Eugenio Di Rienzo nel suo monumentale «Napoleone III» (Salerno Editrice, 715 pagine, € 30), scritta da uno studioso italiano e dunque con particolare attenzione alla «formidabile influenza» che l’Imperatore ebbe sulla nascita dell’Italia unita. All’autore, ordinario di Storia moderna all’Università La Sapienza di Roma e direttore della Nuova Rivista Storica, rivolgo alcune domande.
Già a 22 anni Luigi Napoleone partecipò all’insurrezione di Emilia, Romagna, Marche e Umbria. Dietro questo interesse per la libertà della Penisola c’era un calcolo politico o l’ambizione di un avventuriero con smanie di grandezza?
Sicuramente l’impresa italiana fu una carta che l’Imperatore volle giocare anche sul teatro interno per rafforzare il consenso verso la sua dinastia negli ambienti repubblicani e liberali e nel cosiddetto «bonapartismo di sinistra». Ma la campagna del 1859 tutto fu meno che l’azzardo di un «avventuriero». Scacciando gli Austriaci dalla Pianura Padana, non faceva altro che portare a compimento un programma che si iscriveva nella politica estera del suo Paese fin da Enrico IV. Un programma che non contemplava l’unità della Penisola, ma solo di edificare un «grande Piemonte» esteso a Lombardia, Emilia e Veneto che da quel momento avrebbe orbitato nella sfera dell’egemonia francese. Ciò spiega perché, tranne Vittorio Emanuele II, tutti i protagonisti del Risorgimento, da Mazzini a Goffredo Mameli, da Garibaldi a Crispi a Cavour, finirono per detestarlo, accusandolo di tradimento.
Un tradimento fu considerato l’armistizio di Villafranca dopo la vittoria di Solferino nel 1859. Napoleone III fu indotto a firmarlo dall’ecatombe francese e dal timore di un intervento prussiano?
La Prussia, ostile agli Asburgo e timorosa di una reazione della Russia, non avrebbe mai varcato il Reno. La decisione di chiudere la campagna d’Italia con l’armistizio di Villafranca fu esclusivamente dettata dalla volontà di evitare il compimento dell’unità italiana. D’altra parte non si capisce perché la Francia avrebbe dovuto favorire la nascita di una nuova potenza a ridosso dei suoi confini, in grado di minacciare la sua posizione di forza nel Mediterraneo, che per Napoleone III doveva divenire un «lago francese».
In quale misura sulla sua decisione di conservare le truppe francesi a Roma per più di vent’anni pesò l’influenza della moglie, la spagnola Eugenia de Montijo, che dichiarò «meglio i tedeschi a Parigi che gli italiani a Roma»?
Far arrivare gli italiani a Roma voleva dire inimicarsi il partito cattolico, uno dei più potenti alleati di Napoleone III nella società e nella stessa corte, dove esisteva una forte lobby clericale guidata dall’Imperatrice. Inoltre Roma capitale avrebbe significato dar sanzione definitiva alla nascita del nostro Stato unitario.
Quanta influenza ebbe su di lui la madre?
Dietro un grande uomo, e Napoleone III fu un grande statista e non il «piccolo Napoleone» stigmatizzato da Victor Hugo, c’è sempre una madre ambiziosa. Ortensia fu la vestale del passato napoleonico del quale il figlio doveva assicurare la rinascita.
Quali fattori favorirono l’instaurazione della sua ventennale dittatura?
Nel mio volume presento il colpo di Stato del 2 dicembre non come un «crimine» (la definizione è ancora di Hugo), ma come una misura necessaria per strappare la Francia al caos in cui la rivoluzione del ’48 l’aveva gettata. Retto da una Costituzione, perfetta sulla carta ma disastrosa alla prova dei fatti, perché incapace di coniugare armoniosamente i poteri dell’esecutivo e del legislativo, il Paese viveva in una situazione d’instabilità permanente, di cui si preparavano ad approfittare la sinistra eversiva e la destra conservatrice. Di qui il vasto consenso, del centro moderato e dei quadri più responsabili del movimento repubblicano e liberale, tributato alla presa di potere di Luigi Bonaparte.
(Pubblicato il 21 dicembre 2010 – © «Giornale di Brescia»)