di Paolo Macry
A Liborio Romano, il regime borbonico non aveva fatto sconti. Coinvolto nei gruppi settari di primo Ottocento e partecipe delle brevi stagioni costituzionali del 1820-21 e del 1848, l’avvocato salentino era stato perseguitato per oltre trent’anni. Più volte arrestato, confinato, incarcerato, esiliato. Poi, nell’anno di grazia 1860, la svolta. A giugno, è proprio al vecchio liberale antigovernativo che Francesco II di Borbone chiede di diventare ministro dell’Interno e della polizia. E lui accetta. A luglio però, malgrado il ruolo ricoperto, cospira con Cavour, il quale sta organizzando una sollevazione liberale a Napoli, che prevenga e neutralizzi Garibaldi. Ad agosto, tradendo anche Cavour, si mette a disposizione di Garibaldi. E a Garibaldi, ai primi di settembre, consegna senza colpo ferire le chiavi della capitale, ricevendone la conferma a ministro dell’Interno. Sei mesi più tardi, uscito di scena il generale nizzardo, riesce a entrare nella Luogotenenza Carignano. E qui, però, la stella dell’uomo per tutte le stagioni si spegne. Eletto trionfalmente al primo Parlamento italiano, la sua difesa aggressiva del Mezzogiorno contro la «piemontesizzazione» sarà l’ultima goccia di un vaso già colmo di diffidenze e Cavour ne decreterà la morte politica, negandogli ogni incarico di governo.
La biografia di Liborio Romano si dipana come un romanzo. Ma è anche un grumo di scomode allusioni alla storia e ai caratteri (veri o presunti) dell’Italia e degli italiani. Non è soltanto intensa, frenetica, paradossale. È spesso politicamente scorretta. Il che contribuisce a spiegare il velo di silenzio che sarebbe presto caduto sul personaggio, malgrado il ruolo tutt’altro che marginale nelle vicende del Risorgimento. E, non di meno, spiega i giudizi acri, sprezzanti, feroci che lo colpiscono. «Abbietto e schifoso», l’aveva insultato Carlo Poerio nel settembre del 1860. «Debole, senza carattere, con una certa furberia tra contadinesca e curiale», dirà mesi dopo Costantino Nigra. I borbonici lo bolleranno come un traditore. I liberali come un voltagabbana. Ma forse le cose sono più complicate.
A ben vedere, quel tenace avvocato della provincia pugliese costituisce lo specchio di aspetti e fenomeni del Risorgimento, che sono subito apparsi imbarazzanti e sui quali, perciò, la retorica della nazione ha in genere preferito glissare. La sua capacità di transitare senza troppe remore dall’opposizione antiborbonica a Francesco II, poi a Cavour, poi a Garibaldi e infine a un rivendicazionismo proto-meridionalistico va collocata all’interno delle spaccature profonde e degli intrighi inconfessabili, che caratterizzarono le fasi cruciali del Risorgimento. Basti ricordare come, ancora nell’agosto del 1860, Cavour mandasse segretamente a Napoli armi e bersaglieri, facendo conto su generali borbonici, zii dello stesso Francesco II, oltre al solito Liborio Romano. Con quali obiettivi? Se tutto va per il verso giusto, scriveva a Nigra, si forma un governo provvisorio, il governo provvisorio chiede la protezione del Piemonte e il Piemonte «invia una divisione che assicura l’ordine e arresta Garibaldi». Insomma, tra dichiarazioni pubbliche e operazioni coperte, tra gigli borbonici, camicie rosse e stemma sabaudo, Romano non è il solo a costruire verità multiple: Cavour sarà uno specialista del doppio e del triplo gioco, come scrive il suo biografo Rosario Romeo. E in gioco, a parte l’abisso caratteriale tra un primo ministro anglofilo e un generale col poncho sudamericano, c’è niente di meno che la frattura tra l’anima moderata e l’anima democratica del Risorgimento. La quale è anche una frattura territoriale.
Com’è noto, mostrandosi incapace di realizzare l’agognata rivoluzione liberale (e antigaribaldina), il Mezzogiorno delude profondamente Cavour. Ebbene, di questo fondamentale passaggio dell’unificazione, che provocherà la scelta politica dell’accentramento ed esploderà nella terribile guerra civile del «brigantaggio», Liborio Romano è in qualche misura un simbolo e un protagonista. Tutta la sua contorta vicenda vive nell’impossibile tentativo di conciliare, da una parte, le ragioni politiche e geopolitiche del Piemonte unitario e, dall’altra, la spinta di quelle province meridionali che, nel biennio 1860-61, passeranno in breve dai sentimenti antiborbonici e liberali a una certa effervescenza filogaribaldina e infine alle polemiche «autonomistiche» contro Torino. Proprietario terriero nel Salento e avvocato di grido a Napoli, unendo cioè nella sua persona due classici caratteri del Sud, Romano rispecchia e, al tempo stesso, sollecita le opinioni che corrono tra notabili e ceti medi della provincia meridionale. E, pur con le movenze del camaleonte, queste opinioni sembra non essere mai disposto a tradirle: è immerso nei problemi delle sue terre, perché li conosce bene e perché corrispondono agli interessi suoi e della sua famiglia, e finirà per portarli – con un’enfasi che va giudicata sincera – all’attenzione dello Stato nazionale. Quando tuttavia non è ancora il momento del meridionalismo.
Ma qui la sua personale vicenda solleva un altro nodo di lungo periodo. Negli anni successivi al 1860, il Sud maturerà attitudini fortemente contraddittorie nei confronti dei nuovi poteri piemontesi, oscillando tra recriminazioni autonomistiche, ribellismo armato e, per altro verso, la tendenza a confluire nell’area governativa e nelle maggioranze parlamentari: una sorta di vocazione ministeriale che confluirà nella categoria di trasformismo. E anche il trasformismo, come quel suo spregiudicato precursore salentino, avrà pessima fama nel senso comune del Paese e nella stessa letteratura storiografica. Con qualche esagerazione moralistica, peraltro, in ambedue i casi. Dopo tutto, il trasformismo sarà la chiave di volta di una stabilità politica preziosa, negli anni difficilissimi dello State building, così come Liborio Romano avrà fortemente contribuito, a Napoli, ad un cambio di regime non privo di episodi innominabili, ma senza colpi di coda reazionari né spargimento di sangue.
(Pubblicato il 27 aprile 2011 – © «Corriere della Sera»)