di Giuseppe Bedeschi
Nelle lezioni tenute alla Sorbona nel 1950 su L’Italia contemporanea (1918-1948), Federico Chabod affermò che il principale motivo che indusse Mussolini a iniziare la campagna d’Etiopia fu essenzialmente di tipo politico: cioè la potenza, la grandeur internazionale della Nazione, dell’Italia. Tra 1919 e 1922 Mussolini aveva mostrato una quasi assoluta indifferenza per i principi e per i programmi di politica estera. Una volta però che fu giunto al potere, col passare del tempo, egli divenne sempre più sensibile all’influsso dottrinale del nazionalismo. Mussolini – disse Chabod – «sempre più volse lo sguardo verso l’esterno, la mente rivolta alla potenza, al prestigio dell’Italia, il che faceva tutt’uno con la sua potenza e il suo prestigio personale. E’ la legge fatale delle dittature: il successo all’esterno destinato a compensare la perdita di libertà all’interno».
In un primo tempo, aggiungeva Chabod, la guerra d’Etiopia, sentita come un puro fatto coloniale, non fu popolare tra gli Italiani, ma lo divenne a causa di un grave errore inglese: l’intimidazione militare contro il nostro Paese esercitata in modo diretto nel Mediterraneo dalla flotta britannica (settembre 1935). L’opinione pubblica italiana mutò radicalmente il suo atteggiamento e credette che l’Italia fosse minacciata dal Regno Unito proprio nelle sue legittime aspirazioni nell’antico mare nostrum latino.
D’altra parte, nel 1940, lo stesso Chabod, in un contributo pubblicato sul Dizionario di Politica del Partito Nazionale Fascista, si uniformò a questo comune sentire, con un occhio ancora rivolto alla conquista dell’Abissinia. Nell’articolo Mediterraneo, l’allievo di Gioacchino Volpe scriveva che «se fino al 1861 il problema dell’equilibrio italiano costituiva una parte essenziale dell’equilibrio mediterraneo, l’Italia unita non solo ha cessato di essere semplice oggetto di storia, ma è divenuta, essa stessa, soggetto attivo; da terreno di battaglia di si è trasformata in contendente, protagonista delle vicende politiche europee, e, in ispecie, mediterranee». Con la nascita del nuovo Stato nazionale, infatti, «le Grandi Potenze mediterranee tradizionali perdevano quello che era stato il loro principale campo di manovra per più di tre secoli e si trovavano invece al fianco un nuovo rivale». Parole queste che riecheggiavano quelle vergate da Dino Grandi nella corrispondenza indirizzata a Ciano, il 6 novembre 1936, dove l’ambasciatore presso la Corte di San Giacomo rivelava al Ministro degli Esteri italiano che «l’Inghilterra si era ormai resa perfettamente conto che l’Impero Italiano d’Etiopia è l’Impero Italiano sul Mediterraneo».
Al nodo storico-politico dell’ultima guerra coloniale europea e in particolare alle ricadute internazionali della crisi etiopica Eugenio Di Rienzo ha dedicato la sua nuova ricerca storiografica: Il «Gioco degli Imperi». La Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale (“Biblioteca della Nuova Rivista Storica” – Società Editrice Dante Alighieri, 2016, pp. 202, € 19,50). L’Autore ha attinto a documenti inediti, ha estratto nuove informazioni dagli archivi diplomatici internazionali e ne ha ricavato un quadro assai più ricco e articolato di quello che avevamo fino ad oggi. Grazie a questo lavoro d’indagine lo studio di Di Rienzo, che appare in non casuale coincidenza con l’ottantottesimo anniversario dell’avventura italiana nel Corno d’Africa, fa nuova luce in una prospettiva autenticamente generale sulla crisi del 1935-1936.
In quel biennio l’aggressione italiana all’Impero etiopico, che scontava drammaticamente la sua mancata modernizzazione istituzionale, economica e sociale, provocò, infatti, una delle più gravi congiunture internazionali del primo dopoguerra e finì per provocare lo scoppio del secondo conflitto mondiale. L’ultima conquista coloniale in Africa ebbe enormi ripercussioni sulle relazioni internazionali, ponendo fine all’intesa italo-franco-britannica di Stresa (aprile 1935) che, insieme al Patto franco-russo e all’accordo ratificato da Unione Sovietica e Cecoslovacchia, nel maggio seguente, puntava a garantire Austria e Europa centro-orientale dalle minacce del revanscismo hitleriano.
Dell’ineluttabilità della futura collisione globale fu, da subito, consapevole, il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt. Questi, nel dicembre 1935, durante un pranzo offerto dalla stampa estera disse all’ambasciatore italiano a Washington, Augusto Rosso, di «nutrire serie apprensioni per la possibilità di una nuova guerra mondiale provocata dalla gara di armamenti innescata dal conflitto etiopico». L’inquilino della Casa Bianca faceva osservare al suo interlocutore (il quale ovviamente difendeva l’azione del governo italiano) che, «comunque», la questione etiopica, pur essendo priva di una «particolare importanza per se stessa», aveva creato «un’atmosfera così carica di elettricità e tanto gravida di pericoli di esplosione», da porre i presupposti di un conflitto generale tale da estendersi dal Mediterraneo ai Balcani, dal Baltico all’Ucraina, dal Caucaso all’Estremo Oriente. Un conflitto nel quale, di necessità, si sarebbe trovata coinvolta anche l’America.
La previsione di Roosevelt, sostiene Di Rienzo, era tanto lungimirante da poter apparire addirittura azzardata in quel momento. Ma, in effetti, la crisi etiopica preparò il momento dell’apocalissi bellica che, tra 1939 e 1945, contrappose tra di loro antichi Imperi (quello britannico e quello nipponico), vecchie e nuove, grandi e meno grandi, Potenze imperialistiche (Francia, Italia, Germania, Russia, Stati Uniti). Tutti impegnati, non a sostenere o a far cadere la traballante corona del Negus ma a tessere nuove alleanze e a dissolvere passate intese per acquisire o preservare posizioni di forza da cui affrontare il futuro titanico scontro per il dominio globale.
Vero è pero, secondo Di Rienzo, che la «guerra bianca» tra Italia e Regno Unito (come la definì Dino Grandi nel 1937), non ebbe come unico responsabile il governo italiano. Essa fu provocata anche dalla poco lungimirante scelta politica, fatta dalla classe dirigente inglese, di arrestare il declino dell’Impero britannico, sperimentando una prova di forza con l’Italia fascista che avrebbe infranto le basi della «sicurezza collettiva» europea. La politica inglese, infatti, allontanò Mussolini dal campo occidentale e lo spinse verso la Germania nazista: così il Duce poneva fine all’isolamento internazionale dell’Italia durante il periodo delle sanzioni.
Direi che dalla ricostruzione di Di Rienzo si ricava anche un’indicazione storica di carattere più generale: che lo strumento delle sanzioni impiegato per punire una Nazione responsabile di aver violato le regole del diritto internazionale si è spesso dimostrato un’arma spuntata e controproducente. Tale misura si è rivelata poco utile, nel lontano e nel recente passato, per ridurre a ragione non solo una grande Potenza (oggi la Federazione Russa) ma anche una media Potenza (ieri l’Italia fascista), provvista di un importante apparato militare e fortemente inserita per i suoi rapporti economici, diplomatici, strategici nel contesto geopolitico globale.
(Pubblicato il 24 aprile 2016 – © «Il Sole 24 Ore»)