di Elisabetta Fusar Poli
Il volume di Ivan Cuocolo (Tutela dei beni culturali nel Regno delle Due Sicilie, Aracne, 2014, pp. 135) affronta da molteplici angoli visuali il tema della tutela dei “beni culturali” (locuzione entrata compiutamente nel lessico giuridico solo negli anni Cinquanta del secolo scorso), con fuoco sull’esperienza maturata nel Regno delle Due Sicilie, dal suo costituirsi sino all’unità nazionale.
La battuta d’avvio dello studio è lo sfortunato progetto di legge destinato a «i patrii monumenti, gli oggetti di arte e di antichità» presentato dalla Consulta de’ Reali Domini di qua del Faro il 16 settembre 1854, progetto analizzato attraverso le carte dell’Archivio di Stato di Napoli. Si tratta di una proposta di «conservazione, manutenzione e restauro degli oggetti antichi» per il Regno, affidata a strumenti «molto moderni per l’epoca, come l’esproprio per pubblica utilità e l’obbligo ai proprietari di provvedere alla corretta custodia delle opere», anche col sostegno di un previsto finanziamento pubblico. Il progetto di legge immagina altresì l’istituzione di specifiche Commissioni provinciali, quali articolazioni ad hoc degli apparati amministrativi del Regno, col compito, inter alia, di redigere una sorta di dettagliato inventario dei beni da sottoporre a tutela. I punti di forza del progetto sono tuttavia anche il suo tallone d’Achille: le «gravi spese» che esso comporta e i «mezzi vessatori messi in campo» (ovvero le disposizioni impositive nei confronti dei soggetti privati e l’opzione espropriativa), unitamente ai conflitti di competenza fra gli organi ed apparati dell’amministrazione del Regno, bloccano di fatto l’iter d’approvazione.
Per meglio illustrare le ragioni della proposta mai divenuta legge, nel secondo capitolo dell’opera l’Autore affronta i precedenti decreti del 1822 e 1839 (che, pur dimostrando la continua attenzione dei regnanti, si sono rivelati inefficaci strumenti di tutela per i «pregevoli monumenti antichi e di arte») e riserva altresì un ampio flashback al precedente assetto normativo, spingendo il suo sguardo a ritroso nei secoli, anche oltre gli interventi posti a presidio del patrimonio storico-artistico. Sulla scorta di cospicua storiografia, sono così offerte in un sintetico quadro le iniziative assunte dagli esponenti della dinastia dei Borbone durante il Regno di Napoli, dal XVIII secolo sino all’avvento dei francesi, a partire dalle incredibili scoperte di Ecolano e quindi di Pompei, che reclamano attenzione e specifici interventi per preservare quanto mano a mano riemerge dalle stratificazioni della storia e per impedire trafugamenti, danni, illecite sottrazioni.
In età post-napoleonica spicca, poi, la «svolta fondamentale nell’azione di difesa del patrimonio storico-artistico» registrata negli anni Trenta, con una crescente complessità (e conflittualità) degli apparati preposti ad essa. È altresì rilevata una singolare attenzione per la città e le sue esigenze, sia di decoro architettonico, sia propriamente urbanistiche, che si pone lungo una linea di continuità che corre dal XVIII secolo, quando la regolarizzazione dell’attività edilizia rivela già una specifica sensibilità verso il tessuto cittadino, per arrivare al piano di sistemazione urbanistica che impegna Carlo e Francesco II di Borbone nel primo Ottocento e ai grandi interventi di Ferdinando II, finalizzati a coniugare «salubrità, sicurezza, comodo e abbellimento» della città di Napoli. L’Autore rivolge quindi la propria attenzione alla fase storica che dall’Unità giunge sino ai giorni nostri, offrendo un sintetico scorcio del cammino normativo compiuto nel nome della conservazione e valorizzazione di un patrimonio ricchissimo e dal forte valore identitario, che ancora reclama idonei e più efficaci strumenti di tutela.
Il terzo capitolo del volume è infine riservato agli interventi di restauro eseguiti a Napoli nella prima metà dell’800, dando conto della costante attenzione per la conservazione del patrimonio culturale cittadino prima dell’unificazione.
Il filo conduttore mantenuto dall’Autore attraverso i capitoli in cui si articola l’opera è l’attenzione (talora audace, nella predisposizione di moderni strumenti d’intervento) riservata dalla dinastia borbonica, non solo al patrimonio storico-artistico locale, ma anche al decoro monumentale e architettonico e all’impianto urbanistico delle città. Ne emerge senz’altro una volontà precisa di conservazione e tutela e una apertura a soluzioni normative anche innovative per l’epoca e per il complessivo contesto della penisola, ma al contempo affiorano palesi difficoltà che perdureranno anche successivamente all’unità nazionale. L’intreccio di funzioni e competenze fra commissioni, ispettori, organi ed apparati della pubblica amministrazione complica e rallenta, rende gli interventi normativi, anche i più rigorosi, pressoché velleitari o comunque di difficile attuazione; gli interventi limitativi della proprietà privata – diritto soggettivo primario e per eccellenza esclusivo ed assoluto – non paiono sostenuti da idonea strumentazione giuridica di natura pubblicistica; il patrimonio è ricchissimo e diffuso, richiedendo ingenti risorse anche economiche per la sua tutela, che non paiono garantibili, neppure attingendo alle poco capienti casse pubbliche.
Il «fenomeno regressivo nel campo della tutela delle antichità e belle arti» registrato col passaggio all’Italia unita pare, dunque, porsi esso stesso lungo una linea di continuità con le difficoltà già emerse con evidenza durante l’esperienza del Regno delle Due Sicilie, difficoltà che solo in avvio di XX secolo trovano nuove e più efficienti risposte; forse tempi, anche giuridici, più maturi per fornirle.