di Eugenio Di Rienzo
Uno dei punti più significativi del volume di David Mamet (The Secret Knowledge: On the Dismantling of American Culture, Sentinel, 2011, pp. 242, $ 27,95) è la critica del via libera lanciato dalla cultura di sinistra alla costruzione di una società multietnica. Questa deriva ideologica ha trovato il suo punto di forza nella tesi espressa da Ernest Renan che, nella famosa lezione tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882, replicava alla domanda «Che cosa è una Nazione», sostenendo che essa non poteva basarsi soltanto sul «diritto del sangue e del suolo», sulla comunanza di lingua, di costumi, di tradizioni, di credo religioso, d’istituti giuridici e politici. La Nazione, sosteneva Renan, era piuttosto un principio morale destinato a essere confermato dal «plebiscito di ogni giorno» che ogni cittadino doveva esprimere a favore della volontà di cementare la grande solidarietà costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme.
Quella di Renan rimane per molti una risposta valida ancora oggi. A essa fanno costante riferimento i santoni del politicamente corretto, parlando di un «patriottismo costituzionale» che si traduce in un concorso di volontà più forte di tutte le ragioni di divisione e che costituisce la frontiera della nuova cittadinanza. Resta però da aggiungere che l’acquisizione di quella cittadinanza anche per i non nativi può passare solo per la lunga strada che porta all’adesione sincera e consapevole non solo a quella «costituzione formale» che regola i diritti e i doveri dei componenti di una comunità territoriale, ma anche a quella «costituzione materiale» fatta di usi e costumi secolari, di sensibilità, di conquiste individuali e sociali che vanno rigorosamente rispettate nella quotidianità anche più banale. In questo senso, parlare di una «cittadinanza breve» da conferire tutta e subito ai boat people che approdano sulle nostre coste è invece solo la testimonianza di un’inutile quanto rischiosa filosofia delle buone intenzioni.
Come ha sostenuto Christopher Caldwell, uno dei più autorevoli editorialisti del «Financial Times», in quest’ultimo decennio il Vecchio Continente è divenuto, infatti, non soltanto una società «multietnica» quanto piuttosto una società «multiculturale» priva di programmazione, di progetto, di guida politica. Una società nella quale, in alcuni dei suoi Stati, gli immigrati sono più del 10% della popolazione complessiva e dove, su 375 milioni di europei, ben 40 milioni vivono fuori dal loro paese d’origine, mentre la maggior parte dei nuovi venuti hanno culture e tradizioni difficilmente assimilabili alle nostre e fortemente resistenti ad ogni politica d’integrazione. Cosa sarà allora degli «indigeni» francesi, italiani, tedeschi, con il loro basso tasso di natalità e con il loro inarrestabile invecchiamento demografico? E in particolare, quale potrà essere il loro rapporto con una minoranza di 20 milioni di persone, fortemente coesa, come quella musulmana, infiltrata dalla propaganda di un aggressivo fondamentalismo religioso che si è diffuso dai suoi tradizionali santuari all’intero pianeta sull’onda lunga della globalizzazione, se non si tiene bene ferma l’identità di un’Europa che per sopravvivere deve in primo luogo continuare ad essere un’«Europa delle Nazioni»?
Di fronte a questa inquietante prospettiva, un importante intellettuale francese, come Tzvetan Todorov, ci ammonisce a rifiutare la «paura del diverso», a non identificare con una viziosa analogia storica l’odierna, massiccia ondata migratoria alla calata dei nuovi barbari, assumendo come punto di riferimento mentale l’apocalittico ricordo della caduta dell’Impero romano. Eppure, nella sua esortazione, Todorov, dimentica di ricordare che la fine di quell’organizzazione politica non fu soltanto dovuta all’invasione dei barbari esterni. Essa fu anche determinata, secondo la lettura fattane da Michail Rostovzev nel 1926, dal selvaggio ammutinamento delle masse contadine e del proletariato urbano (i cosiddetti barbari interni). Allora, infatti, quei popoli stranieri, insediatisi come forza lavoro all’interno del mondo civilizzato, senza condividerne i più elementari punti di riferimento culturali, sconvolsero e poi distrussero con una serie di sanguinose rivolte le strutture politiche, istituzionali, economiche del mondo antico. Un passato, questo, che abbiamo visto ritornare nelle sommosse dei sobborghi parigini e nella recentissima sollevazione giovanile di Tottenham a Londra alla luce dei cui incendi si è forse consumata la prima fase del tramonto dell’Occidente.
(Pubblicato il 22 agosto 2011 – © «il Giornale»)