di Emanuele Mastrangelo
Aiutò Vittorio Emanuele a vincere la guerra contro l’Austria, ma poi mise il piede sul freno dell’unità d’Italia, dicendo che l’«unione» del nostro Paese avrebbe richiesto tempo. La sua simpatia per i movimenti liberali e per il Risorgimento italiano non gli impedirono mai di privilegiare gli interessi francesi, dettati dalla geopolitica prima che dall’ideologia. Napoleone III è una delle figure storiche che maggiormente ha influenzato l’Europa, e l’impronta che egli diede all’assetto del Vecchio Continente rimase fino alla Grande Guerra, sopravvivendo per quattro decenni al suo Impero. Un personaggio che ora una nuova biografia ritrae alla luce di documenti inediti. «Storia in rete» incontra l’autore di Napoleone III (Salerno Editrice, 2011, pp. 720, € 30,00), Eugenio Di Rienzo, docente di Storia moderna all’Università di Roma, La Sapienza, e direttore di «Nuova Rivista Storica».
Napoleone III è spesso rappresentato nell’iconografia risorgimentale come uno degli “artefici” dell’Unità d’Italia. In realtà la piega presa dagli eventi fu un caso da manuale di eterogenesi dei fini. Quali erano i veri obiettivi di Parigi per l’Italia nel 1859?
Sicuramente il contributo del Secondo Impero al nostro Risorgimento fu formidabile. Senza il soccorso delle baionette francesi, nel 1859, l’esercito piemontese non avrebbe potuto reggere il confronto con le armate austriache. Sappiamo però che Napoleone intendeva liberare l’Italia dal dominio di Vienna, trasformarla in una Confederazione di Stati indipendenti, posti sotto l’egemonia politico-militare dei Savoia e quella morale del Pontefice, ma non certo farne un organismo politico unificato. Quest’obiettivo non rientrava assolutamente nella secolare strategia italiana della Francia: da Enrico IV a Luigi Filippo. In questo senso non si può certo dire che l’azione di Napoleone III fu rivoluzionaria. Al contrario si può sostenere che la sua politica fu molto tradizionale. Pensiamo soltanto al progetto elaborato dall’ultimo Presidente del Consiglio della monarchia orleanista, François Guizot, che intendeva sostenere i movimenti liberali e riformatori con l’obiettivo di creare, attorno alla Francia, una «clientela di Stati costituzionali» nella Penisola.
Su questa soluzione Guizot insisteva, nella corrispondenza del 25-26 agosto 1847, inviata al futuro ministro di Pio IX Pellegrino Rossi. In essa il capo dell’esecutivo francese ricordava con tono imperativo che il «pensiero dominante» del gabinetto da lui diretto era quello di «sostenere sì l’indipendenza degli Stati italiani ma di evitare allo stesso tempo una conflagrazione europea» e insisteva sulla necessità di «far comprendere al partito nazionale italiano che è suo interesse presentarsi e agire separatamente, come romano, toscano, napoletano, e non porre mai una questione generale italiana che diventerebbe inevitabilmente una questione rivoluzionaria».
Ufficialmente i francesi si chiamano fuori dalla Seconda guerra d’Indipendenza per voci di movimenti prussiani alla frontiera. Fu una minaccia reale oppure solo un pretesto per siglare l’armistizio di Villafranca?
La leggenda storiografica vuole che Napoleone III fu costretto a siglare l’armistizio di Villafranca per evitare che la Confederazione germanica, guidata dalla Prussia, intervenisse in soccorso dell’Austria sfondando la debolissima linea difensiva francese sul Reno e procedendo poi all’invasione della Francia. In realtà questa ipotesi non si sarebbe mai verificata per due precise ragioni. La prima era che, grazie alla Convenzione di Stoccarda del settembre 1857, San Pietroburgo si era obbligata a mantenere una neutralità benevola verso Parigi che si sarebbe materializzata con la concentrazione di un contingente forte di 150.000 uomini a ridosso della frontiera austriaca in Galizia. Nell’accordo era anche contemplata l’assicurazione russa di mantenere Berlino fuori dal conflitto utilizzando lo strumento della moral suasion e all’occorrenza anche quello della minaccia di un intervento militare. La seconda era che la Prussia si trovava impegnata, in quel momento, in un duro confronto con l’Impero asburgico che poi avrebbe portato alla guerra del 1866. Come aveva fatto osservare Bismarck, nel maggio 1859, «un nostro deciso sostegno all’Austria, in grado di assicurarle la vittoria, avrebbe garantito a questa Potenza una situazione di assoluta supremazia in Italia e in Germania, simile a quella detenuta dagli Asburgo durante la Guerra dei Trent’anni, dalla quale la Prussia avrebbe potuto emanciparsi solo a condizione di veder nascere un nuovo Gustavo Adolfo o un nuovo Federico II».
Perché dunque l’armistizio di Villafranca?
Napoleone III si era ormai reso conto che il conflitto ingaggiato nelle pianure lombarde non avrebbe portato soltanto all’estromissione dell’Austria dalla Pianura padana e alla costituzione di un Grande Piemonte che avrebbe inglobato l’area settentrionale della Penisola fino agli Appennini. La dinamica politica provocata dalla vittoria di Solferino portava ormai alla nascita di uno Stato unitario di più di 22 milioni di abitanti a ridosso delle frontiere francesi. Come ogni altro statista, degno di questo nome, l’Imperatore non poteva tollerare questa prospettiva. Dal 1860, Parigi svilupperà, infatti, una manovra di avvicinamento a Vienna che la porterà a stipulare, alla vigilia del conflitto italo-austro-prussiano del 1866, la Nota addizionale della Convenzione segreta franco-austriaca. Con quell’accordo, Parigi otteneva la cessione del Veneto all’Italia ma concordava con Vienna che «se in seguito agli eventi della guerra o altrimenti, si fossero prodotti in Italia sollevazioni spontanee dirette a distruggere l’unità italiana, il Governo francese si impegnava a non intervenire né con la forza né con altro mezzo per ristabilirla e a lasciare le popolazioni libere dei loro movimenti».
E’ vero che Garibaldi rischiò d’essere intercettato e affondato dai francesi mentre navigava da Quarto a Marsala durante l’incipit della Spedizione dei Mille? Inoltre, dopo il crollo della monarchia borbonica, è lecito dire che il Piemonte – allargandosi all’Italia meridionale – ereditò lo status di media Potenza a sovranità limitata che fu del Regno delle Due Sicilie?
Il progetto di intercettare i vapori noleggiati alla Compagnia Rubattino prima del loro approdo a Marsala fu sicuramente preso in considerazione da Parigi come lo fu da Vienna che inviò una sua squadra nel porto di Napoli. A proteggere la navigazione delle imbarcazioni partite da Quarto si era mosso però il contrammiraglio Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet, che aveva ricevuto l’ordine di incrociare nel Tirreno per impedire la reazione borbonica e quella di ogni altra Potenza ostile alla spedizione dei Mille. L’intervento francese non ebbe dunque luogo per il timore di una reazione dell’Inghilterra con la quale Napoleone III cercò di evitare in ogni modo uno scontro frontale, per tutta la durata del suo regno, fino al punto di rinunciare nel 1859 a inviare la sua flotta nell’Adriatico per impedire il transito dei rinforzi austriaci diretti verso l’Italia. Il Secondo Imperò tentò, invece, di bloccare lo sbarco delle formazioni garibaldine in Calabria proponendo a Londra di organizzare un blocco navale congiunto nello stretto di Messina. L’operazione fu però bocciata da Londra. Come rivelano alcuni documenti inediti, conservati negli archivi del Foreign Office, Cavour riuscì a convincere la Corte di San Giacomo che la dittatura provvisoria instaurata da Garibaldi in Sicilia non avrebbe comportato il rischio di una combustione rivoluzionaria nella Penisola. Da parte sua, il ministro degli Esteri, John Russel, era dell’opinione che un’Italia, unificata da Torino a Palermo, gravitante nell’orbita del Regno Unito, sarebbe stata molto più utile al programma di trasformare il Mediterraneo in un «lago britannico», perché il nuovo Stato, indebolito dalla stessa estensione delle sue coste, avrebbe sempre avuto bisogno dell’interessata protezione dell’armata navale inglese. Erano questi gli stessi argomenti utilizzati da Palmerston per piegare le ultime resistenze della Regina Vittoria che considerava l’avventuriero dei Due Mondi un «brigante sud-americano» Pur restando persuaso che l’interesse di Londra sarebbe stato quello «di far sì che l’Italia meridionale restasse una Monarchia autonoma piuttosto che divenire parte di un’Italia unita, perché un Regno separato delle Due Sicilie si schiererebbe sempre a favore della potenza navale più forte e cioè con l’Inghilterra», Palmerston suggeriva alla sovrana che, considerando «il generale mutamento della bilancia dei poteri in Europa», l’allargamento del Regno di Vittorio Emanuele II, dalle Alpi a Capo Lilibeo, risultava «il miglior adattamento possibile».
Il riconoscimento del Regno d’Italia da parte della Francia è uno dei più tardivi, nonostante l’impegno del 1859. Quali sono i motivi di questa marcia indietro?
Effettivamente il riconoscimento dell’Italia da parte di Parigi avvenne con molto ritardo, il 25 luglio 1861, dopo quello della Gran Bretagna, della Prussia, degli Stati Uniti, di altri Stati minori, come Portogallo, Svezia, Danimarca, Grecia, Confederazione Elvetica e persino dell’Impero Ottomano. Bisogna però dire che la Francia aveva interrotto i suoi rapporti diplomatici con il governo di Torino nel 1860: dopo che le truppe piemontesi avevano invaso le Marche e l’Umbria, sconfiggendo le milizie pontificie a Castelfidardo e sfidando in questo modo Napoleone III che dal 1849 era divenuto il protettore della Chiesa. Al di là di questi motivi di natura strettamente politica, dobbiamo ricordare inoltre che l’Imperatore dei Francesi era intimamente convinto che il nostro organismo unitario non avrebbe retto alla prova del tempo. Scrivendo a Vittorio Emanuele II, il 12 luglio 1861, Napoleone III faceva presente al sovrano italiano che: «che le trasformazioni politiche devono essere opera del tempo e che un’aggregazione nazionale completa non può essere durevole che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita e quindi di ritenere, in una parola, che l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione».
Napoleone III sembra emotivamente simpatizzare per l’Italia, dal suo passato di rivoluzionario nel 1831 all'”ammirazione” per il suo attentatore Orsini. Eppure la sua politica verso il paese riunificato non indulge a sentimentalismi. E’ corretto dire che le propensioni personali dell’Imperatore non influenzarono una politica nazionale dettata da situazioni non contingenti?
Per comprendere la posizione di Napoleone III sulla questione italiana, occorre ricordare la frase di Palmerston pronunciata, il 1° marzo 1840, alla Camera dei Comuni: «la Gran Bretagna non ha alleati, amici o nemici eterni ma soltanto interessi permanenti, il perseguimento dei quali costituisce l’unico dovere imperscrittibile per ogni suddito di questa nazione».
La questione romana rimarrà come un macigno fino al 1870. Napoleone III si ostina a proteggere Roma per accontentare i cattolici francesi? Oppure vede nel Lazio l’ultimo scampolo di quel Regno del Centro che sognava nel 1859?
Ambedue le spiegazioni sono giuste. Da una parte Napoleone III non poteva permettersi di cedere alle pretese italiane per ottenere l’annessione di Roma, perché in questo modo avrebbe perso l’appoggio del forte partito cattolico che costituiva parte integrante del suo consenso. Dall’altra, la presenza di un’importante guarnigione francese a nella sede di San Pietro gli consentiva di mantenere un piede in Italia e di condizionare la politica del governo di Firenze. Per evitare la conquista della Città Santa, Luigi Bonaparte fu addirittura pronto a rischiare un conflitto armato con il Regno d’Italia alla fine di ottobre del 1867. Questa intransigenza spinse il nostro Paese ad avvicinarsi ulteriormente alla Prussia e ad accrescere di conseguenza l’isolamento internazionale del Secondo Impero. Nel 1869, il nuovo rifiuto delle Tuileries a risolvere il problema romano fece fallire il progetto di coalizione italo-franco-austriaca che forse avrebbe potuto evitare la disfatta di Sedan.
Il governo repubblicano francese post-1870 continua la politica di Napoleone III verso l’Italia. In che modo? Certi rapporti fra le nazioni dunque travalicano il dato politico? La geopolitica spiega i fenomeni storici meglio dell’ideologia?
Dopo la caduta di Napoleone III, il ministro degli Esteri del Governo provvisorio, il repubblicano Jules Favre, che nel passato si era dimostrato favorevole alla soluzione di Roma capitale, mutò improvvisamente d’avviso. Insieme a Thiers, Favre iniziò una sfibrante trattativa diplomatica, subordinando il riconoscimento della presa di Roma del 20 settembre 1870 all’intervento dell’Italia a fianco della Francia contro la Prussia. Il rifiuto di Visconti Venosta di accettare quella transazione fu considerato, oltre le Alpi, la prima «pugnalata alle spalle contro la sorella latina» e servì a giustificare la perdurante ostilità della Terza Repubblica nei nostri confronti. Dopo aver acconsentito a un condominio italo-francese sulla Tunisia, il 12 maggio 1881, la Francia, grazie all’appoggio di Londra, impose il suo protettorato su quella regione, dove pure era preponderante il peso della nostra emigrazione e della nostra presenza economica e commerciale. Da quel momento, il governo francese iniziava una guerra diplomatica (ancora a proposito della «questione romana») e finanziaria (campagna al ribasso contro i valori italiani quotati alla Borsa di Parigi) verso il nostro Paese, interrottasi provvisoriamente con il riavvicinamento del 1902 e poi con l’alleanza contro gli Imperi centrali. Lo sciovinismo francese avrebbe, infine, dato nuove prove dopo la fine della Grande Guerra quando Parigi avrebbe tenuto a battesimo la nascita della Jugoslavia, per annichilire la nostra influenza nei Balcani e nell’Adriatico, favorendo allo stesso tempo i disegni della Grecia di far bottino delle spoglie europee dell’Impero Ottomano che erano state promesse all’Italia con il Patto di Londra dell’aprile 1915. Un vicenda quella delle relazioni italo-francesi che dimostra, dal 1861 al 2011, come la geopolitica, e non certo l’ideologia, deve essere magistra historiae.
(Pubblicato sul numero 66, aprile 2011 – © «Storia in rete»)