di Paolo Mieli
Per celebrare, nel 2015, il bicentenario della nascita di Otto von Bismarck (1815-1898), il leader socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco nella coalizione guidata dal cancelliere Angela Merkel, è andato nel ginnasio berlinese dove l’illustre statista aveva studiato (senza essere mai, però, tra i primi della classe). «Il ritratto del “cancelliere di ferro” non è solo nella vostra scuola, ma anche nel mio ufficio», raccontò Steinmeier: «Nella cosiddetta “stanza Bismarck” si riuniscono ogni mattina alle nove i più alti funzionari del ministero degli Esteri per discutere della situazione mondiale». In quella sala, prima, quando c’era ancora la Repubblica democratica tedesca, ricordò poi Steinmeier, sedeva il Comitato centrale della Sed (il Partito socialista unificato) e c’erano i ritratti di Karl Marx e di Friedrich Engels; prima ancora, l’edificio era la sede della banca del regime nazista «e potete immaginare quale ritratto doveva essere esposto». Oggi c’è Bismarck: «Vedete come una sola stanza può essere lo specchio della storia tedesca». Dopodiché il ministro si sentì in dovere di precisare che per lui l’uomo che aveva guidato la politica tedesca dal 1862 al 1890 non era certo «un modello», che non lo considerava un eroe, «ma neppure un mascalzone». Nel senso che evidentemente riteneva assurda la tesi, molto in voga qualche decennio fa, secondo cui l’uomo di Guglielmo I avrebbe addirittura posto le basi per la successiva affermazione hitleriana.
Oggi, scrive Gian Enrico Rusconi nell’interessante e assai acuto Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck (che verrà pubblicato il 14 aprile per i tipi del Mulino), si può ritornare a parlare del personaggio, «della sua particolare concezione della geopolitica, senza rimuovere la memoria critica di quello che sarebbe accaduto dopo, sotto altre responsabilità». Si può, dunque, «tornare alle radici storiche di una degenerazione che non era deterministicamente predefinita nelle sue origini». Lungo il solco tracciato da un importante libro scritto nel secondo dopoguerra da Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna (Il Mulino, 1988), da testi più recenti come L’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918 di Michael Stürmer (Il Mulino, 1986), La distruzione dell’Europa. La Germania e l’epoca delle guerre mondiali (1914-1945) di Andreas Hillgruber (Il Mulino, 1991), Bismarck, l’uomo che ha fatto grande la Germania (Garzanti, 1993) di Lothar Gall e altri rilevanti saggi non ancora pubblicati in Italia (di Christoph Nonn, Stefan Kornelius e soprattutto, come vedremo, Hans Kundnani), Rusconi affronta il complesso tema delle analogie tra i problemi che si posero nei decenni successivi all’unificazione tedesca (1871) e quelli venuti alla luce nei venticinque anni seguiti alla riunificazione del 1990.
Oggi come allora la Germania si è trovata a dover fare i conti con un ruolo, quello di «potenza di centro» — politica ai tempi di Bismarck, economica adesso con Angela Merkel — che ha reso inquieti tutti i suoi partner. E il problema dell’egemonia tedesca, «semiegemonia», «egemonia riluttante» come titolò l’«Economist» nel 2013, o «egemonia vulnerabile» come sostiene oggi Rusconi. «Dobbiamo convincere il mondo che un’egemonia tedesca in Europa agisce in modo più utile, imparziale e meno dannoso per la libertà degli altri, che non un’egemonia francese, russa o inglese», fu la rassicurazione di Bismarck nel 1898 poco prima della sua morte. E oggi possiamo tranquillamente dire che — a dispetto degli auspici del cancelliere padre dello Stato tedesco — la Germania, in quasi un secolo e mezzo di vita, questa sicurezza ai Paesi europei non l’ha mai data.
La Germania ha conquistato la propria unità attraverso tre guerre: quella del 1864 contro la Danimarca per la «liberazione» dei ducati dell’Elba (Schleswig-Holstein), quella contro l’Austria nel 1866 e infine quella contro la Francia nel 1870-71. Sotto lo sguardo vigile, ma non ostile, di due imperi, la Gran Bretagna e, in particolare, la Russia. Qui Rusconi propone alcune riflessioni degne di nota sulla forza della Germania nelle stagioni in cui riesce a costruire una politica di equilibrio con la Russia e sulla fragilità nei tempi — come l’attuale a seguito della crisi ucraina del 2014 e dell’appoggio alla Turchia di Erdogan in chiave anti Assad e anti Putin — il rapporto con la Russia viene meno. Concetto più volte rimarcato dall’ex cancelliere Gerhard Schröder (che, a fine mandato, dai russi ha accettato un prestigioso incarico): «Gli europei sanno per esperienza storica che è andato tutto bene quando c’era un’intesa con la Russia; tutto diventava difficile, quando questa mancava». Prima, durante e dopo l’esperienza comunista.
Ma torniamo alla seconda metà dell’Ottocento. Per ciò che riguarda l’impero tedesco, il fondatore del Reich non ha mai creduto alla invincibile potenza della Germania, ma «è sempre stato preso dalla preoccupazione di conservarla». L’impero è «vulnerabile». Di qui la necessità di «garantirne la tenuta e la forza con ogni mezzo», con l’azione diplomatica prima di tutto, ma anche con la deterrenza militare contro le possibili coalizioni ostili. Bismarck «ha sempre escluso una guerra preventiva ma non ha mai perso di vista il rischio costante di fare la guerra». La sua assicurazione che la Germania fosse una «potenza satura» non indicava solo «il contenimento (o l’auto-contenimento) della potenza militare», ma anche la sua capacità di deterrenza. La «saturazione» non è un concetto statico, ma dinamico; significa «tenere lontano la guerra senza cancellarne la possibilità». La «mossa vincente» dello statista sarà l’introduzione, dopo la guerra contro l’Austria, del suffragio universale maschile «che spiazza letteralmente non solo i suoi sostenitori conservatori ma anche gli avversari liberali».
È, quello del 1866, un momento molto particolare. Il re Guglielmo, anche dopo la vittoria, vorrebbe continuare la guerra per dare una «dura lezione agli austriaci». Bismarck considera folle questa opzione, vuole stipulare immediatamente la pace con Vienna nel timore che un intervento francese rimetta tutto in discussione. Guglielmo insiste. Il cancelliere medita addirittura il suicidio. Poi il sovrano cede e gli manda un biglietto che contiene molto di più di quel che balza agli occhi ad una prima veloce lettura: «Dal momento che il mio presidente dei ministri mi pianta in asso davanti al nemico e io non sono in grado di sostituirlo… mi vedo costretto, con dolore dopo così splendide vittorie, ad accettare una pace vergognosa». Lo stesso Moltke, il generale che quella guerra l’aveva vinta, non considerava affatto «vergognosa» la pace imposta dal cancelliere e fu quello il momento (anche se ne aveva parlato già l’anno precedente) in cui Bismarck decise di concedere il voto all’intera popolazione maschile per dare un diverso equilibrio al rapporto tra autorità e consenso.
Perciò, scrive Rusconi, l’introduzione del suffragio universale «non è il riconoscimento della sovranità popolare, bensì una misura che oggi chiameremmo “populista”, in una struttura costituzionale che continua a non essere autenticamente parlamentare perché, al di sopra della rappresentanza popolare, riemergono le prerogative sovrane della monarchia, di fatto gestite dal cancelliere». Gli osservatori del tempo la definiscono una «politica conservatrice con mezzi rivoluzionari», una «rivoluzione dall’alto» o anche «cesarismo». C’è poi, l’8 marzo 1867, una frase pronunciata da Bismarck al cospetto del Parlamento della Confederazione tedesca del Nord (l’introduzione del suffragio universale, disse, «non è affatto un complotto pensato contro la libertà della borghesia in collegamento con le masse per l’istituzione di un regime cesaristico»), che secondo Max Weber intendeva affermare proprio quel che ufficialmente veniva negato.
Sta di fatto che da quel momento iniziò per molti ad esser chiaro che quella di Bismarck era una rivoluzione. Lo mise a fuoco qualche anno dopo, nel febbraio 1871, Benjamin Disraeli alla Camera dei Comuni di Londra: «Questa guerra (contro la Francia) rappresenta la rivoluzione tedesca, un evento politico più grande della rivoluzione francese». Lo approfondì, un secolo dopo, Henry Kissinger sottolineando come solo ai posteri appaia con chiarezza in che cosa consista il carattere rivoluzionario dell’agire di un politico. Senza contare poi che agli eredi tocca il compito di essere all’altezza della rivoluzione. «Gli dei», sosteneva Kissinger, «puniscono talvolta l’orgoglio degli uomini realizzando completamente i loro desideri… Gli statisti che costruiscono con preveggenza, sanno trasformare l’atto creativo individuale in istituzioni che devono poter essere conservate anche con un basso livello di prestazione dei loro successori». E qui, secondo l’ex segretario di Stato americano, Bismarck ha fallito: la sua tragedia è quella di «aver lasciato un’eredità di una grandezza irraggiungibile».
La storia in qualche modo si ripeterà nel 1990, quando toccherà al cancelliere Helmut Kohl il compito di unificare la Germania (con il consenso di Mikhail Gorbaciov) e ad Angela Merkel di indossare i panni del successore a cui tocca il compito di completare il disegno (in un clima di frizioni con Vladimir Putin). Ha scritto Stürmer: «La storia della democrazia bismarckiana avrebbe dovuto essere di ammonimento: nel 1870 i russi rimasero zitti quando la Francia fu battuta e da allora attendevano come contropartita i Dardanelli e i Balcani quando sarebbe stata in gioco l’eredità della Turchia».
Questo non accadde, soprattutto a partire dalla fase finale dell’epoca bismarckiana, e da allora «incominciò la fatale Entente (Intesa) franco-russa». La delusione russa ebbe allora il suo prezzo: la Grande guerra. E anche oggi, fa notare Stürmer: dopo il 1990 «la Germania ha guadagnato l’unità, la Russia ha perso l’Ucraina». E Berlino si è per di più collocata su un fronte antirusso anche in occasione della guerra al Califfato islamico. Fino a far proprie le accuse talvolta sproporzionate della Turchia alla Russia. Cosa che talvolta appare destinata a provocare una grande destabilizzazione.
A complicare il quadro si aggiungono, dal 2008, le fibrillazioni provocate dagli andamenti economici. Secondo Kundnani, che scrive in margine a una riflessione proprio su Bismarck, «nel lungo periodo crescerà la pressione che porterà gli Stati debitori a unirsi in un’alleanza antitedesca e a perseguire una politica conflittuale verso la Germania, proprio come temono i tedeschi». Questo è di nuovo un parallelo con la situazione del dopo 1871: la Germania è indotta a temere l’accerchiamento «con la differenza che oggi si tratta di un accerchiamento economico e non geopolitico».
Rusconi riconosce che la Germania «esercita un ruolo di supplenza o addirittura in qualche caso di sovrapposizione rispetto all’Unione Europea». Ma, spiega poi, «se questa è considerata un’anomalia, è bene riflettere sul fatto che essa è imputabile più alla divisione, all’inefficienza, alla irresolutezza delle istituzioni europee, che non alla vera o presunta prepotenza o presunzione tedesca». Colpa dunque di un’Unione Europea «che si trova spesso in uno stato di affanno decisionale e performativo». Anche se, forse, è presto per addentrarci nel labirinto dell’attribuzione di questo genere di responsabilità.
(Pubblicato il 15 marzo 2016 – © «Il Corriere della Sera»)