di Gianluca Kamal
Lui di mari ne ha attraversati tanti. Quelli tumultuosi della lotta politica (al timone del Fronte della Gioventù milanese negli anni ’80); quelli più blandi ma ugualmente vivaci delle ricerche e degli studi storici portati avanti negli anni con passione e acume; quelli volubili del giornalismo e delle istituzioni (portavoce del ministro della Difesa). Prima di tutto, però, lo spirito tipicamente triestino di ricercatore inquieto e di viaggiatore curioso, forse le uniche doti sufficienti a rendere una vita davvero vissuta. Il mare come orizzonte, come motivo di curiosità, come ragione di indagine. Ecco quindi “Patria senza mare”, un’opera innovativa nella quale Marco Valle, l’autore nonché l’”uomo misterioso” descritto sin qui, racconta con accuratezza e stile brillante successi e travagli dell’Italia marittima, indicando nella riscoperta del mare, e del Mediterraneo in particolare, il segno di un nuovo (e antichissimo) destino tutto italiano.
Dopo Braudel sembra finalmente essere ritornato il momento di rioccuparsi di mare, e di Mediterraneo in particolare. Se la fondamentale opera dello storico francese segnò uno “spartiacque” nel modo di concepire e periodizzare la storia, il tuo volume (in uscita il 25/26 maggio) rompe un incomprensibile lungo silenzio dell’editoria italiana verso gli scrittori di cose di mare. Eppure, autori e volumi preziosi non erano certo mancati prima di te…
La marittimità è (o, meglio, dovrebbe essere) una priorità della nostra narrazione nazionale. Piaccia o meno nel Mediterraneo, come ricordava Braudel, «l’Italia ha sempre trovato il segno del proprio destino poiché ne costituisce l’asse mediano e le è dunque naturale il sogno e la possibilità di dominare quel mare in tutta la sua estensione» e proprio nel “continente liquido” risiedono i primari elementi politici, economici, militari su si regge cui l’intero sistema-Nazione. Purtroppo, malgrado tre mari e 7.551 chilometri di linea di costa, gli italiani non sono quel “popolo di navigatori” invocato da Benito Mussolini nel celebre discorso del 2 ottobre 1935. O, almeno, lo sono stati nel passato ma sempre in modo intermittente, discontinuo e localistico. L’acqua salata, magari, diverte (d’estate…) ma non interessa, non appassiona. Talvolta spaventa. La paradossale refrattarietà dell’attuale classe politica e di gran parte di quella imprenditoriale verso il mare rispecchia lo spirito terragno e terricolo della maggioranza dei nostri connazionali. Paradigmatico è l’atteggiamento del mondo delle Lettere che tutt’oggi rifugge, sottostima o, addirittura, ignora la dimensione marittima. Rilanciando una provocazione di Egidio Ivetic, la ricerca storica, a parte le luminose eccezioni che ho largamente utilizzato in questo lavoro, continua: «A guardare il Mediterraneo in modo passivo senza includere anche in chiave comparativa le varie parti del Mediterraneo nella narrazione storica d’Italia. Negli Annali tematici della Storia d‘Italia Einaudi, una serie di 27 grossi volumi, troviamo di tutto, fuorché un volume dedicato al mare. Insomma, ci sono studi e studiosi, ma manca una sistematicità storiografica, mancano visioni e interpretazioni». Insomma persiste un marcato, costante disinteresse dell’editoria italiana verso qualsiasi suggestione marina e verso gli scrittori di cose di mare. Per un imbarazzante provincialismo tutto sembra esaurirsi nel “Breviario mediterraneo” del forse sopravvalutato Predag Matevejevic, croato, oppure nelle opere di David Abulafia o di John Julius Norwich, ambedue inglesi. Gli italiani non vengono o quasi considerati.
Certe letture di parte ci parlano di Mediterraneo come grande campo di battaglia nei secoli tra diverse culture e civiltà. La storia però sembra piuttosto narrarci di “incontri/scontri” (F. Cardini) che hanno fatto di questo mare un immenso crocevia di ricche contaminazioni. Illustraci questo particolare passaggio storico.
Le anguste categorie dello “scontro di civiltà” e tanto meno le narrazioni vetero occidentaliste non mi hanno mai convinto. In più, proprio il Mediterraneo, come c’insegna Franco Cardini, non è semplicemente uno spazio ristretto tra due oceani e tre continenti ma rimane, in un susseguirsi di contaminazioni e contrapposizioni, traffici e guerre, una fucina di Civiltà, quella “mediterraneità” polifonica che ritroviamo ancor oggi su ogni sponda del Mare Interno. Emblematico a riguardo è lo storico rapporto tra Venezia e l’impero ottomano: economicamente legati, il dogato e La Porta, divennero, riprendendo una volta di più Braudel, due «nemici complementari», una coppia infelice ma indissolubile. Un rapporto elusivo, discontinuo ma, in fondo, profittevole, ben distante dalla narrazione retorica di molti spettatori europei, da Etienne de la Boètie a Montesquieu, che ravvisarono nella Repubblica l’incarnazione di Giuditta, la libertà, e nell’impero turco quella di Oloferne, la tirannide. Nonostante le guerre e le dolorose perdite territoriali nel Levante i rapporti commerciali veneziani con il sistema ottomano rimasero sempre vantaggiosi al punto che nel 1574 l’esecutivo dogale concesse ai mercanti musulmani l’apertura di una propria sede in città, il Fondaco dei Turchi.
Nell’epoca della grande trasformazione, o di Caoslandia come la chiami nel libro, quali debbono essere le direttrici attraverso le quali muovere un qualche pensiero sul presente e sul futuro dell’Italia e dell’Europa a livello geopolitico?
Il Mediterraneo, al netto della retorica europeista — quella “tensione lotaringia” che Camillo Benso di Cavour rimproverava ai suoi molto provinciali colleghi di governo — rimane per l’Italia un’occasione, una prospettiva forte e, forse, l’unica percorribile; se vogliamo restare una “media potenza a vocazione globale” solo sul mare e attraverso il mare possiamo difendere la nostra vocazione mercantile e rilanciare una proiezione d’influenza geopolitica autonoma. Riprendendo Lucio Caracciolo: «Non si tratta di fuggire il Mediterraneo, ma di assumerne, in quanto avanguardia geografica e a partire dai nostri interessi, la cogestione insieme ai principali soci europei, nordafricani e levantini».
Proprio mentre il globo si avvia verso un modello di economia “green” e “blue” l’Italia, fatto a meno nel 1993 del Ministero della Marina mercantile, si presenta del tutto impreparata e arretrata per affrontare le tremende sfide provenienti anche dal mare. Da dove possono provenire lampi di speranza per una rinascita nazionale in tal senso?
Nonostante le criticità strutturali e l’assenza di un ministero del Mare qualcosa inizia a muoversi. Penso all’Università di Genova, uno tra i migliori atenei al mondo sui temi marittimi; nel 2019 ha costituito un apposito “Centro del mare” che riunisce le competenze di oltre 400 docenti e ricercatori, con cinque corsi di laurea triennale (design del prodotto e della nautica, economia delle aziende marittime, logistica dei trasporti, ingegneria nautica e navale, maritime science and technology) e otto magistrali (biologia ed ecologia marina, design navale, nautico e yacht, economia, oceanografia, logistica, ambiente). Si tratta di un laboratorio d’altissimo livello in cui studiare e sperimentare il mare nelle sue diverse declinazioni: ambientali, produttive, ricreative e sociali. Il centro universitario ha il suo naturale interlocutore nello splendido Galata Museo del mare, il più grande museo marittimo del Mediterraneo.
In più lo scorso anno, nell’ambito del Recovery fund, è stato previsto un “progetto porti integrati d’Italia” con 1,22 miliardi di euro destinati alla sostenibilità ambientale, in primis per l’elettrificazione delle banchine con il sistema “cold ironing”. Un primo passo verso i tanti auspicati “porti verdi” a cui fa riscontro l’impegno dell’Autorità di Sistema Portuale di Trieste diretta dal dinamico presidente Zeno D’Agostino. Lo scalo giuliano dal 2020 è capofila di un progetto ambientale europeo, Susport Sustainable Ports. Un piano strategico che coinvolge tutte le Autorità portuali dell’Adriatico. Oltre a Trieste partecipano Venezia, Ravenna, Ancona, Bari, Porto Nogaro e i porti croati di Fiume, Zara, Spalato, Ploce, Dubrovnik (Ragusa). L’obiettivo è migliorare la performance ambientale e l’efficienza energetica, trasformando i porti da semplici luogo di scarico e carico di merci in hub energetici, strutture capaci di produrre energia pulita.
Altro segnale importante per una possibile inversione di tendenza e l’annuncio (speriamo) di una visione marittima innovativa arriva dagli sforzi della rivista “Limes” che, a partire dal 2006, ha dedicato numerosi fascicoli al tema e nel 2020 e 2021 — in piena emergenza pandemica — ha organizzato “Le giornate del mare”, una serie di incontri d’altissimo livello in cui docenti, operatori, vertici della Forza armata e politici (pochi) hanno affrontato con chiavi interpretative originali il problema del recupero della “naturale” dimensione marittima italiana.
Sentimentalismo ipocrita e ideologismo cieco hanno portato il Mediterrano a essere visto quasi esclusivamente, a causa dei tragici naufragi di migranti, come “mare di lacrime”. Come si è arrivati a questa visione?
Il Mediterraneo va oggi visto come Medio Oceano, in quanto connessione tra l’Oceano Indo Pacifico (spazio del contrasto cino-americano) e l’Oceano Atlantico, oceano canonico della proiezione americana verso l’Europa, con al centro il Canale di Sicilia, una realtà strategica della quale non sembriamo essere particolarmente interessati. Eppure è qui che si gioca la partita decisiva del nostro presente e del futuro, a fronte di una “pressione disintegrativa” immediata alla nostra frontiera, determinata dal sempre più forte gap demografico tra l’Italia ed i Paesi africani, gap destinato a crescere e quindi a condizionare i rapporti sull’intera area. Serve perciò consapevolezza della sfida geopolitica e della centralità del Mediterraneo. Ed è necessario uscire dal genericismo della politica-politicante, delle polemiche inutili, del facile moralismo mascherato da solidarietà o dalle logiche emergenziali di corto, cortissimo respiro.
La montagna è verticalità, con la vetta puntata verso il cielo pare quasi cercare di sfiorare Dio. Il mare… il mare… Raccontaci tu l’immagine del mare.
Sono figlio, nipote e bisnipote di uomini di mare istro-veneti. Da bimbo il mio parco giochi era il Porto vecchio di Trieste dove attendevo o salutavo le navi di mio padre. Non a caso mi ritrovo nelle pagine di Giovanni Comisso, nelle sue descrizioni dell’Adriatico, del mare d’Istria e Dalmazia. Nei suoi libri le voci dei protagonisti, capitani, nostromi, mozzi, si intervallano e s’intrecciano — simili agli stasimi del coro eschileo — ai sospiri, pensieri e grida di mogli e fidanzate in attesa, talvolta per mesi, di veder riapparire all’orizzonte le navi del ritorno. Ma il vero protagonista è sempre il mare. Con i suoi colori, i suoi riflessi, il suo buio inestricabile, il riflesso della luna, i venti, le tempeste e la quiete dell’ormeggio.
(Pubblicato il 19 maggio 2022 © «Domus Europa» – Geopolitica)