di Emilio Gin
In che modo un conflitto locale, apparentemente di modesta portata sul piano politico e strategico, possa aver determinato una contesa generale destinata a «coinvolgere tutta l’umanità» è problema storiografico antico posto per la prima volta da Tucidide nel primo libro de La Guerra del Peloponneso dedicato a investigare per quali ragioni lo scontro tra Corinto e Corcira fosse cresciuto su stesso fino a costituire la «causa verissima e inconfessata» della lotta per l’egemonia che oppose Atene a Sparta. Questo stesso problema storiografico è stato riproposto da Eugenio Di Rienzo nel suo ultimo studio Il «Gioco degli Imperi», la Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale (“Biblioteca di Nuova Rivista Storica” – Società Editrice Dante Alighieri, 2016, pp. 202, € 19,50) dove si sostiene che la piccola scossa sismica della guerra italo-etiopica del 1935-1936 provocò l’immenso sconvolgimento tellurico del secondo conflitto mondiale.
La Guerra d’Etiopia apparve a un testimone d’eccezione, come Franklin Delano Roosevelt, molto prima del tuono dei cannoni del settembre 1939, il fattore decisivo che avrebbe portato ineluttabilmente a una nuova collisione globale. Già il 21 dicembre 1935, il Presidente degli Stati Uniti aveva rivelato all’ambasciatore italiano a Washington, Augusto Rosso, di «nutrire serie apprensioni per la possibilità di conflitto europeo provocato dalla gara di armamenti da lui considerata una conseguenza della tensione originata dal conflitto etiopico». Pur condividendo in larga misura le obiezioni di Rosso, secondo cui «non era certamente da imputarsi all’Italia ma piuttosto all’Inghilterra se una questione puramente coloniale si era trasformata in crisi europea nonostante gli sforzi del governo di Roma di risolvere i suoi problemi di sicurezza e di espansione col minimo disturbo possibile della situazione mondiale», Roosevelt restava fermo in questo convincimento.
Il premier statunitense faceva osservare al suo interlocutore che «comunque» la questione etiopica, pur essendo priva di una «particolare importanza per se stessa», aveva creato «un’atmosfera così carica di elettricità e tanto gravida di pericoli di esplosione», da porre i presupposti di un conflitto generale che poteva estendersi dal Mediterraneo ai Balcani, dal Baltico all’Ucraina, dal Caucaso all’Estremo Oriente, nel quale, di necessità, si sarebbe trovata coinvolta anche l’America. Era una previsione tanto lungimirante, da poter apparire addirittura avventata in quel momento, ma che pure rispecchiava, secondo Rosso, «lo stato d’animo prevalente del Dipartimento di Stato e degli ambienti politici statunitensi» connotato dalla scarsa fiducia per le reali capacità di Francia, Inghilterra, Italia, Russia, troppo deboli sul piano militare, troppo disorientate su quello politico, soprattutto troppe divise da antichi rancori e da nuovi sospetti, di far fronte alle minacce provenienti da Berlino e Tokio.
Proprio analizzando il significato di questo da questo vaticinio, che metteva impietosamente in luce il declino materiale e morale del Vecchio continente, l’autore de Il «Gioco degli Imperi» getta nuova luce sul significato della congiuntura internazionale alla quale l’impresa bellica italiana nel Corno d’Africa diede avvio e che non rappresentò soltanto la legittima risposta della comunità internazionale contro le provinciali e arroganti smanie di grandeur di Vittorio Emanuele III e del «figlio del fabbro di Predappio». Secondo l’analisi di Di Rienzo, la crisi etiopica fu invece il momento di confronto che contrappose tra di loro antichi Imperi (quello britannico e quello nipponico), vecchie e nuove, grandi e meno grandi, Potenze imperialistiche (Francia, Italia, Germania, Russia, Stati Uniti). Tutti impegnate, non a sostenere o a far cadere la traballante corona del Negus ma a tessere nuove alleanze e a dissolvere passate intese per acquisire o preservare posizioni di forza da cui affrontare il futuro titanico scontro per il dominio globale.
Il Game of Empires, che si sviluppò tra ottobre 1935 e luglio 1936 non vide, infatti, la coesa e infrangibile «confraternita dei giusti» contrapporsi frontalmente alla malvagità dello «Stato canaglia» fascista. Questa versione aggiornata del «Grande Gioco» prefigurò piuttosto il «labirinto delle alleanze» della seconda guerra mondiale, dove, come nelle «Guerres des coalitions» dei secoli passati, gli associati dell’Asse e quelli delle Nazioni Unite alternarono la lotta contro il nemico comune alla difesa e al potenziamento dei propri assetti geo-strategici a danno spesso dei loro junior partners, nel più pieno ossequio, come nel 1943 ebbe a costatare Benedetto Croce, all’eterno dogma dell’«utile politico».
La «guerra bianca» tra Italia e Regno Unito, come la definì l’allora ambasciatore italiano a Londra, Dino Grandi, che accompagnò nel retrobottega diplomatico e nelle aule della Società delle Nazioni, le battaglie, i massacri gratuiti, gli orrori ingiustificati e ingiustificabili della campagna d’Abissinia e poi la spietata repressione della guerriglia etiopica, dove alla ferocia dei resistenti si contrappose la brutalità delle forze di occupazione, non ebbe, sostiene ancora Di Rienzo, come unico responsabile Mussolini. Essa fu provocata anche dalla miope scelta politica, fatta da Anthony Eden e da parte della classe dirigente inglese, di arrestare durante la crisi etiopica l’ineluttabile declino del British Empire in ogni modo, con tutti i mezzi e anche a scapito della «sicurezza collettiva» europea.
(Pubblicato il 23 marzo 2016 – © «L’Acropoli Blog»)