di Marco Valle
Sir Max Hastings è un buon giornalista, un abile ricercatore e, soprattutto, un ottimo divulgatore. Non sempre i suoi lavori hanno però il dono della scientificità e dell’obiettività – le fonti sono spesso discutibili e le testimonianze talvolta incerte -, ma scrive bene, decisamente bene. Non a caso il festival goriziano “èStoria” – assieme ad Acqui Storia, la più prestigiosa rassegna del dibattito storiografico nazionale – ha deciso di premiarlo il prossimo 24 aprile, in occasione dell’edizione dedicata al divampare della Grande Guerra. Ma, purtroppo, anche i giornalisti appassionati di storia talvolta deragliano e si infarinano nel mulino del loro sapere. Per vanità, denaro o convinzione. Poco importa.
L’ultimo capitombolo di Hasting lo abbiamo registrato domenica scorsa scorrendo “la Lettura”, il supplemento culturale de “Il Corriere della Sera”. Dall’importante tribuna meneghina l’ex corrispondente di guerra della BBC – approfittando probabilmente della distrazione del ben più ferrato Paolo Mieli – ha ricostruito con molta enfasi e poca sostanza le ragioni dell’intervento britannico nel 1914. Per lo scrittore l’umanità intera dovrebbe essere grata al Regno Unito per il suo generoso e (secondo lui) disinteressato intervento militare contro la Germania del baffuto kaiser Guglielmo. Per il dotto Max «nessuno storico degno di questo nome pensa che i britannici, francesi o persino russi desiderassero un conflitto europeo; i tedeschi invece, se non una guerra di così ampie dimensioni, di sicuro ne volevano una balcanica, causa però di quanto accadde in seguito, che avrebbero potuto evitare a luglio imponendo agli austriaci di fermarsi. Per tale motivo, nonostante nessuna singola nazione meriti di portare tutta la responsabilità del disastro iniziato nel 1914, a mio parere questa deve ricadere soprattutto sui tedeschi». E ancora, il germanofobico collega riesce a prendersela persino con John Maynard Keynes, definito per le sue limpide critiche al trattato di Versailles del 1919, un «fervido simpatizzante dei tedeschi». Dunque, la Germania e solo la Germania «nel 1914 rappresentava una forza malvagia, il cui trionfo doveva essere impedito». Ad ogni costo.
Stupidaggini. Senza scomodare i “padri nobili” che occhieggiano incupiti dalla libreria – Albertini, Volpe, Salvemini, Horne -, basta rileggere Paul Kennedy, autore del fondamentale Storia dell’antagonismo anglo-tedesco (Rizzoli 1993) per confutare le balorde tesi di Hastings (riprese paro paro dal discutibile e ormai obsoleto lavoro di Fritz Fisher, Assalto al potere mondiale) e ragionare sulle motivazioni vere del conflitto. E, per motivi di spazio, non andiamo oltre.
Insomma, con molta leggerezza, Hasting preferisce spiegare il boato de “i cannoni di agosto” (e tutto ciò che ne è conseguito) proponendo l’ennesima inutile lettura moralistica. Una tentazione diffusa e banale per molti autori che Lucio Caracciolo nel suo editoriale nel nuovo numero di Limes dedicato alla catastrofe di cent’anni fa, definisce con giustificato sprezzo come “approdo obbligato di analogismi e determinismi… la storiografia come un romanzo giallo, dove il colpevole è il maggiordomo di turno”.
Grazie al cielo il centenario delle “tempeste d’acciaio” riserva anche novità interessanti. In attesa di veder tradotto Der Grosse Krieg, il monumentale lavoro di Herfried Munnkler (928 pagine nell’edizioni tedesca) che analizza in profondità e in un’interpretazione multicausale la catastrofe del 1914, consigliamo La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la prima guerra mondiale (Mondadori) di Franco Cardini e Sergio Valzania. Un libro importante che illustra, con maestria e autentica pietas, l’avvitarsi del continente in un “danza macabra” senza ritorno. Senza lieto fine.
A differenza di Sir Hasting, i due autori non fanno sconti ad alcuno, non vi sono buoni e cattivi, giusti e ingiusti ma gruppi dirigenti inadeguati o/e cinici e trasformazioni sociali e culturali profonde quanto inattese, impreviste. Sconvolgenti. Su queste coordinate Cardini e Valzania indagano le responsabilità italiane – e di Giolitti in particolare -, fissando nell’ormai dimenticata guerra di Libia – un azzardo politico e un equivoco strategico – la causa scatenante delle guerre balcaniche.
Per gli autori la ferita inferta dal Regno d’Italia – ansioso, dopo la crisi di Agadir, di diventare una potenza autonoma nel Mediterraneo – al declinante impero ottomano, sconvolse gli equilibri regionali risvegliando i nazionalismi di Serbia, Romania, Bulgaria e i mai sopiti appetiti di Russia e Austria-Ungheria. Tutto iniziò a vacillare, a incrinarsi. Tre anni dopo, il 28 giugno 1914, Gavrilo Princip uccideva a Sarajevo l’erede al trono austro-ungarico. La mattanza aveva inizio.
(Pubblicato il 14 maggio 2014 – © «La Destra.it» – La Grande guerra cent’anni dopo)