di Eugenio Di Rienzo
Già da tempo l’immagine della conferenza di Yalta come luogo della spartizione concordata dell’Europa –e dunque del mondo- tra i grandi vincitori della seconda guerra mondiale era alquanto deteriorata. Il libro di Luca Riccardi, Yalta. I tre Grandi e la costruzione di un nuovo sistema internazionale (Rubbettino 2021), sembra confermare l’affermazione di un più realistico modo di guardare a questo grande evento della politica internazionale del XX secolo. I bei palazzi principeschi della penisola sul Mar Nero non furono testimoni di un sordido affaire politico tra Grandi potenze prepotenti che avrebbe influenzato la vita e la libertà di centinaia di milioni nei quarant’anni successivi. Ma furono il luogo di un appassionante negoziato diplomatico dove si confrontarono visioni del mondo diverse che, soprattutto per iniziativa di Roosevelt, si volevano riunificate in un’unica volontà di governo pacifico del mondo postbellico: «cinquant’anni di pace». La questione su cui si appuntano le critiche dei detrattori della politica del presidente americano è quella delle sfere d’influenza. Primo fra tutti Charles de Gaulle, presidente del Governo Provvisorio della rinata Repubblica Francese, che riteneva di dover essere inserito nel ristretto club di coloro che avevano versato fiumi di sangue e di denaro per sconfiggere Hitler e i suoi alleati. E che, rifiutato, cominciò a spandere la leggenda nera di una spartizione mai avvenuta. A rafforzare ciò contribuirono anche i dissidenti anticomunisti del quarantennio postbellico. Proprio in quella conferenza vollero vedere le ragioni dell’incomprensione occidentale per le sofferenze imposte dal totalitarismo sovietico e della volontà di arrivare a un tollerante coabitazione che veniva chiamata «Distensione».
Queste interpretazioni, puramente politiche, sono state talvolta sorprendentemente recepite dalla storiografia; ma soprattutto dall’opinione pubblica per la quale anche soltanto il toponimo Yalta ha assunto il significato di spartizione ingiusta fatta a spese della libertà di piccoli paesi incapaci di difendersi. Un luogo comune, insomma, ma tra i più efficaci e diffusi nella cultura e nella politica dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Il lavoro di Riccardi cerca di collocare la Conferenza di Yalta al di fuori di questa stratificazione fuorviante di interpretazioni semplicistiche. Presenta una visione estremamente “politica” degli otto giorni di negoziato dalla quale emergono molto ben delineati quali furono i capitoli principali della trattativa. Innanzitutto proprio quello delle sfere d’influenza. Si vede con chiarezza come Roosevelt fosse molto determinato a impedire che il futuro postbellico dell’Europa, e del mondo, si costruisse su quelle fondamenta. Questa linea, però, era già chiara dalle settimane precedenti l’incontro di Yalta. Il presidente americano, infatti, nella sostanza, aveva rifiutato il metodo e i risultati della Conferenza di Mosca tra Churchill e Stalin, nell’ottobre del 1944. Le «percentuali» con le quali i due vincitori europei si erano divisi la parte orientale del Vecchio Continente non erano piaciute alla Casa Bianca e anche al Dipartimento di Stato dove, di lì a pochi giorni, avrebbe fatto il suo esordio come Segretario il fedelissimo Stettinius. Roosevelt, in una nota missiva, aveva chiarito che «solo [loro] tre» avrebbero potuto prendere le decisioni determinanti per il futuro del mondo.
A questo fine la delegazione americana arrivò ben preparata in Crimea. Al di là delle discrepanze tattiche che si manifestarono tra Dipartimento e presidente, gli strumenti per evitare l’affermazione del “metodo” delle sfere d’influenza dovevano essere principalmente due: la Dichiarazione dell’Europa liberata e i risultati della Conferenza di Dumbarton Oaks in cui si erano delineati i connotati della nuova grande organizzazione internazionale multilaterale. La direttiva strategica per raggiungere un accordo su questi temi era evitare l’isolamento di Stalin con un rigido allineamento con Churchill. Anzi, nei colloqui bilaterali con il dittatore sovietico, il presidente non fu certo parco di critiche verso il premier sia per la sua politica europea che per quella asiatica. Con questo non voleva ripudiare l’amicizia con il Regno Unito. Ma chiarire che il mondo scaturito da Yalta non avrebbe potuto fare a meno dell’Unione Sovietica né svilupparsi contro la sua volontà. Roosevelt contava molto, alla lunga, sulla forza del modello americano. Riteneva che se l’URSS fosse stata indotta ad accettare il metodo democratico in Europa orientale e quello multilaterale nel mondo questo avrebbe fortemente attenuato -anche se nel medio-lungo termine- il suo antagonismo ideologico verso il capitalismo e la liberal-democrazia.
Stalin si presentò a Yalta brandendo una splendida vittoria militare, determinante per gli esiti del conflitto. La stessa agenzia di stampa britannica Reuters, nel presentare al pubblico i suoi reportage filmati sugli incontri di Crimea, definì il capo sovietico «uno dei più grandi leader militari di tutti i tempi». Anche a dispetto del sospetto che Churchill cercava di inculcare nella mente di Roosevelt a proposito dei veri intendimenti del Maresciallo. Che, in realtà, erano alquanto palesi. La Conferenza avrebbe dovuto determinare una sistemazione politico-militare dell’Europa che avrebbe reso impossibile la ripetizione delle aggressioni tedesche alla Russia attraverso la via polacca. Quest’ultima, secondo alcuni testimoni, fu la principale «spina» delle conversazioni di palazzo Livadia. La soluzione, come in tutti i negoziati, fu trovata in un decente compromesso: la Polonia avrebbe avuto un governo amico dell’URSS, ma che si sarebbe dovuto sottoporre alla procedura democratica prevista dalla Dichiarazione dell’Europa liberata. Fu «una buona vittoria» per Stalin; ma anche consentiva agli altri due leader di avere un appiglio cui aggrapparsi di fronte a una eccessiva prepotenza sovietica. I Polacchi erano ritenuti molto nazionalisti e unilaterali e non piacevano a nessuno dei convenuti che parevano aver dimenticato il martirio al quale era stata ed era ancora sottoposta la loro Nazione dal Terzo Reich e dalla Russia. E questo fu un loro indubitabile punto di debolezza.
L’URSS era forte militarmente, ma nascondeva una fragilità: la necessità di reperire risorse per la ricostruzione. Il suo territorio era stato il campo di battaglia di un devastante scontro militare per quasi quattro anni. Di qui la discussione sulle riparazioni tedesche, tenuta qualche volta in ombra dalla storiografia, ma così importante per un Paese affamato e distrutto come era l’Unione sovietica. Su questo tema, anche se con molti «ondeggiamenti», la delegazione americana fu, nella sostanza, favorevole alla linea sovietica. Questa si contrapponeva a quella britannica che riteneva inutile se non dannosa l’istituzione di un meccanismo delle riparazioni a danno dell’annientata Germania. Ma, proprio sulla Germania, Roosevelt fu particolarmente spregiudicato. Accontentò –non certo facendo felice Stalin- le richieste di Churchill di aggregare la Francia al governo della grande sconfitta occupata e debellata. Il leader britannico, infatti, coltivava un’ossessione comune con Stalin: la rinascita della potenza tedesca. L’annuncio che Roosevelt aveva fatto nel corso della Conferenza di voler «riportare i ragazzi a casa» entro due anni l’aveva terrorizzato. Aveva bisogno di un partner occidentale con il quale condizionare la rinascita tedesca e dividere le spese di occupazione. De Gaulle non raccoglieva grandi simpatie al tavolo dei Grandi. Ma il suo contributo era necessario e, contrariamente alle sue lagnanze, a Yalta i Tre divennero «quasi quattro».
Sono questi solo alcuni esempi della complessa trama del negoziato che non può essere semplicisticamente ricondotta alla categoria della spartizione. Gli esiti successivi alla conferenza non devono essere confusi con i suoi presupposti. Naturalmente Roosevelt commise l’errore di credere di essere in grado di condurre la politica sovietica verso un orizzonte multilaterale e, diciamo così, democratico. D’altronde si era in presenza di un’assenza di alternative. Le armate sovietiche avevano effettivamente liberato e occupato i territori dell’Europa orientale. Il condizionamento politico ed economico era l’unico strumento che rimaneva nelle mani di coloro che speravano di impedire il suo totale radicamento in quella parte del continente. Per giunta Roosevelt aveva una guerra da finire, quella contro il Giappone. Le previsioni del Joint Chiefs of Staff parlavano di ulteriori 18 mesi di ostilità e circa un altro milione di vittime americane. L’assenso di Stalin –che di perdite umane ne lamentava più di venti milioni- a intervenire contro il Sol Levante appariva indispensabile. Questa era un’altra ragione per cui andare d’accordo con l’URSS.
Il volume di Riccardi, seguendo il metodo classico, ma mai vetusto, della storiografia politico-diplomatica ha voluto offrire al lettore una bussola per orientarsi nei brevi ma assai densi giorni di Yalta. È un’ulteriore conferma di orientamenti che si sono recentemente affermati nella storiografia anglo-sassone; dove, per fortuna, i luoghi comuni sull’incontro dei tre Grandi in Crimea sono stati finalmente smentiti.
(Pubblicato il 25 giugno 2021 © «Nazione Futura» – Cultura)