di Marina Montesano
Durante i primi decenni in cui vennero introdotte, non sembra che le armi da fuoco provocassero grosse preoccupazioni su chi ne subiva i colpi, e anche quanti le usavano si dimostravano scettici: erano probabilmente troppo grossolane, poco maneggevoli ed efficaci, per non parlare poi dei costi. Oppure degli incidenti: talvolta infatti scoppiavano e rischiavano di far morti e feriti tra gli artiglieri, piuttosto che nelle file nemiche. Tuttavia, coincidenza volle che proprio alla fine del Quattrocento prendesse avvio un lungo periodo di guerre che avrebbe cambiato la faccia del continente europeo, e che proprio da allora l’arma da fuoco cominciasse ad assumere un ruolo evidente e autonomo negli scontri bellici.
Del mutato clima si erano ben resi conto, in Italia, osservatori attenti quali Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, il quale scriveva infatti: «Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti».
Guardava alla politica, il Guicciardini, nel paventare ciò che stava avvenendo alle porte e poi direttamente in Italia con la discesa di Carlo VIII di Francia, ma questa politica trovava ormai nelle armi e negli eserciti i suoi sintomi qualificanti. Qualcosa d’irreparabile era avvenuto: non più scontri poco cruenti, non più campagne militari lunghe e punteggiate di giochi diplomatici così com’era stato nella tradizione italiana del Quattrocento. La guerra non era ormai più un modo di prender tempo o di impegnare in qualche modo dei mercenari turbolenti: era divenuta lo strumento primario d’una lotta politica che si giocava sul filo della corsa all’egemonia continentale, il che obbligava a considerarla ormai come un valore autonomo rispetto alla diplomazia. Dall’Europa, inoltre, la guerra si stava ormai estendendo verso i mari, dove nei secoli successivi le potenze del Vecchio continente si sarebbero sfidate e inseguite per il predominio coloniale: sembra quasi che avessero fatto in casa e nel Mediterraneo la lunga gavetta che le avrebbe portate, nel giro di un secolo, a dominare il mondo. E anche in questa storia le tecnologie militari hanno avuto un ruolo fondamentale: senza le navi armate di cannoni, senza la polvere da sparo che i cinesi conoscevano già da tempo, ma che avevano utilizzato per fare bei fuochi d’artificio, l’imperialismo europeo non avrebbe certo avuto il successo che conosciamo.
Tecnologia e imperialismo sarebbero dunque intrecciati e insieme costituiscono la chiave di lettura dell’egemonia dell’Occidente sul resto del mondo: è quanto sostiene Daniel R. Headrick nel suo Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo (il Mulino, 2011, pp. 408, € 29,00). La storia militare, si sa, è una prerogativa del mondo anglosassone: nell’Europa continentale e in Italia soprattutto ha conosciuto minor successo, scontrandosi spesso con l’idea (peraltro non sempre errata) che l’interesse inglese e statunitense per l’argomento serva più che altro a celebrare i trionfi guerreschi dei due paesi.
Nel caso di Headrick siamo però lontani da questi sospetti, dal momento che l’autore ricostruisce sì la storia dell’espansione europea per mari e terre durante l’età moderna, ma lo fa partendo da un quesito che riguarda alcuni conflitti recenti tutt’altro che vittoriosi: perché le guerre in Vietnam, in Iraq e in Afghanistan non vengono vinte dagli eserciti occidentali? Perché l’indubbia supremazia tecnologica e militare non serve a sconfiggere guerriglieri male armati? Perché le tecnologie da sole, risponde Headrick, non sono sufficienti, ed è per questo che nel sottotitolo del suo libro, fra la tecnologia e l’imperialismo, troviamo l’ambiente: senza un ambiente favorevole le tecnologie non bastano, anche se gli Occidentali auspicherebbero il contrario.
È più che una semplice constatazione da parte dell’autore: di fronte alle difficoltà di questi conflitti, gli eserciti euro-americani rispondono sganciando più bombe e costruendo armi nuove, come i droni che uccidono senza neppure il bisogno di un coinvolgimento umano diretto. Non ha forse detto il presidente americano Obama, dinanzi ai caduti del suo paese in Afghanistan, che avrebbe auspicato una guerra senza morti americani? Una guerra, insomma, dove a morire siano soltanto gli altri, i nemici? Al di là delle considerazioni sulla moralità di un’idea del genere, sembra dirci Headrick, il punto è che il dominio occidentale è cresciuto di pari passo con l’accrescersi delle sue tecnologie: quando queste non bastano più, diventa difficile raggiungere la vittoria, ma ancor più impensabile è accettare la sconfitta, tanto la superiorità tecnologica è divenuta per l’Occidente sinonimo di superiorità morale: ai nostri giorni non meno che ai tempi del colonialismo trionfante.
(Pubblicato il 31 marzo 2012 – © «Europa»)