di Eugenio Di Rienzo
Eva Anna Paula Braun, che solo per 40 ore divenne Eva Hitler, prima di suicidarsi insieme al dittatore nel Bunker della Cancelleria di Berlino, il 30 aprile 1945, avrebbe potuto rappresentare, con le sue grandi, piccole illusioni, il classico modello della ragazza europea, nata e vissuta tra le due guerre, se l’incontro con la guida della rivoluzione nazionalsocialista non avesse letteralmente sconvolto la sua esistenza.
Nata da una famiglia della piccola-media borghesia della cattolicissima Monaco (il padre, un insegnante di liceo, la madre, una semplice casalinga) Eva si diploma in dattilografia e conduce un’esistenza apparentemente tranquilla, quando, appena diciassettenne, nell’atelier del fotografo ufficiale del Partito nazista, Heinrich Hoffman, dove lavora come segretaria, fa la conoscenza di Hitler che si presenta ai suoi occhi come «un signore di mezza età, con due buffi baffetti, abbigliato con un soprabito inglese dai colori tenui e con un alto cappello di feltro». Da questo momento, Herr Wolf (lo pseudonimo utilizzato da Hitler per conservare l’anonimato) entra con impeto travolgente nella vita dell’adolescente monegasca, nonostante l’opposizione del padre che aveva definito il futuro Cancelliere del Reich un «mendicante austriaco», propagatore di idee false e pericolose.
La relazione tra Fräulein Braun e il Führer è vissuta all’inizio nella più piena clandestinità. Eva, infatti, è solo una delle tante donne di Hitler come l’attrice Renate Müller che si sarebbe tolta la vita nel 1937. Anche la Braun tenterà il suicidio nel 1932 e nel 1935 e solo a partire dal 1936 inizierà la sua convivenza con il dittatore prima nella villa di Wasserburgerstrasse, alla periferia di Monaco, e infine nella residenza del Berghof sulle Alpi bavaresi. Ma anche dopo quella data resterà soltanto la moglie morganatica del Reich millenario. Se Claretta Petacci dimostrerà nella sua relazione con Mussolini di essere una donna dotata di qualche fiuto politico e di qualche influenza sul suo amato Ben, Eva rimase sempre e unicamente un grazioso oggetto di arredamento.
Come avrebbe scritto l’architetto del regime, Albert Speer, a lei, pur ammessa a frequentare l’inner circle del suo compagno, era formalmente preclusa ogni presenza di carattere ufficiale. A questa «ragazza infelice» (la definizione è ancora di Speer), ridotta al rango di una prigioniera di lusso, non erano neanche concesse le piccole consolazioni della civetteria femminile. Presentatasi nel dicembre 1941, al cospetto del suo padrone, con le labbra velate da un filo di rossetto, Eva dovette subire una violentissima sfuriata di Hitler e si sentì gridare in faccia che «l’unico trucco concesso alle donne tedesche doveva essere il sangue dei soldati uccisi sui campi di battaglia».
Un destino molto diverso, quindi, da quello fantasticato dalla giovane dattilografa che sognava di divenire una star di Hollywood. Di quel sogno però resta un’ultima traccia degradata nella serie di fotografie recentemente scoperte dal collezionista Reinhard Schulz dove appare una Braun mai vista e immaginata. La compagna di Adolf Hitler in costume da bagno, mentre fuma e beve con i gerarchi nazisti o mentre si rilassa con i suoi cani, perfino uno scatto della donna del Führer con il volto dipinto di nero, nelle vesti dell’attore americano Al Jolson, protagonista del film del 1927 The Jazz Singer. E ancora una Eva nuda che civetta dietro un ombrello. Sono immagini tetre, fosche, avvilenti che illuminano bene i vizi privati di un sistema totalitario disumano e che stridono con la rappresentazione eroica e trionfante che il regime nazista riuscì a cucirsi addosso grazie al genio cinematografico della straordinaria regista, Leni Riefenstahl, autrice delle grandiose pellicole che divennero in breve una delle più forti armi della propaganda hitleriana.
(Pubblicato l’11 marzo 2011 – © «il Giornale»)