di Luigi Morrone
La collana “Minima Storiografica” di “Nuova Rivista Storica”, edita dalla Società Editrice Dante Alighieri, pubblica un’interessantissima opera di Gioacchino Volpe, curata dal direttore del periodico Eugenio Di Rienzo e da Fabrizio Rudi. Volpe aveva concepito un grande affresco sulla storia d’Italia a cavallo della Grande Guerra, di cui aveva pubblicato nel 1940 il primo volume, “Il popolo italiano fra la pace e la guerra”, ma le vicende belliche e il successivo buen retiro a Sant’Arcangelo di Romagna, gli impedirono di portarlo a termine. In forma dattiloscritta, era rimasto solo un abbozzo dell’opera concepita da Volpe: Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra”, limitato al periodo 23 maggio 1915 – 17 agosto 1916. Ora, i curatori, con la collaborazione della famiglia dell’illustre storico, recuperano questo lavoro fondamentale per la comprensione della genesi dell’intervento italiano in guerra e della sua conduzione iniziale.
Volpe (che partecipò alla Grande Guerra), analizza da par suo l’intero evolversi degli avvenimenti, sin dallo scontro tra neutralisti e interventisti, scontro che gettava un’incognita sul peso che avrebbero avuto quelle lacerazioni nel corso degli eventi bellici. Individua le motivazioni dell’entrata in guerra dell’Italia dopo un anno di neutralità: l’acquisizione dei confini naturali della penisola, «della grande cerchia montana, posta da natura a proteggere e quasi a creare la patria italiana e il popolo italiano», l’acquisizione alla madrepatria degli italiani che vivevano in terra straniera, la conquista del ruolo di potenza marittima mediante l’occupazione della sponda orientale dell’Adriatico, spina nel fianco delle forze navali italiane.Rileva l’impreparazione dell’Italia alla guerra, sia sul piano logistico, sia su quello psicologico, essendo l’Italia adusa ad una guerra pro aris et focis, una guerra difensiva, laddove – invece – si apprestava ad intervenire attaccando. Si focalizza sul peso del Papato nelle vicende italiane, visto che, per la prima volta dal 1870, ed al contrario della guerra di Libia, questa volta sarebbe stata una guerra condotta sul territorio italiano, e contro una potenza cattolica. Annota come la neutralità proclamata dalla Santa Sede fosse percepita dalle nazioni cattoliche dell’Intesa, Belgio e Francia (e anche dall’Italia, ancor prima dell’intervento), come una sorta di simpatia per l’impero asburgico. Annota, altresì, come all’Italia fosse mancata, nel momento dell’intervento, quella simpatia internazionale che aveva – invece – investito le altre potenze dell’Intesa, quando la guerra era stata presentata all’opinione pubblica come una lotta contro le “tirannie” degli Imperi Centrali: le vicende italiane, in particolare la questione del confine orientale, erano sconosciute al di fuori della penisola, dove – anzi – l’Italia era vista come l’eterna mercante, che cercava il migliore offerente, ed aveva perciò tradito i soci della Triplice Alleanza.
L’intervento del 24 maggio 1915 fu, dunque pregno di incognite. Volpe tratteggia gl’inizi della campagna bellica, contrassegnati non solo da operazioni militari, ma anche da iniziative di prevenzione degli austriaci nei confronti degli italiani residenti nelle zone di confine, molti dei quali avevano comunque prudentemente lasciato le loro case prima dell’inizio della guerra. L’inferiorità italiana nella guerra marittima era controbilanciata dalle rapide avanzate di terra, ancorché queste ultime favorite dalla tattica attendista degli austroungarici.
Acutissima l’analisi di Volpe sia sulle operazioni belliche, sia sulle implicazioni politiche di ciascuna di esse, soprattutto sottolineando a più riprese lo scarso impatto delle vicende italiane nel quadro politico europeo. Ed è palpabile l’entusiasmo dell’illustre storico quando rileva come, a guerra iniziata, l’entusiasmo dei giovani per l’avventura bellica travolse la prudenza degli anziani, sì che la dicotomia neutralismo – interventismo, a guerra iniziata, divenne quasi un contrasto generazionale, in cui – aggiungiamo noi – come sempre, «C’era l’entusiasmo dei veri giovani, che portavano come una corrente fresca nei solchi un po’ aridi della vita italiana, e, disse Benedetto Croce, c’era l’ostentazione e la fatuità del falsi giovani che gridavano dai tetti la loro gioventù e il loro disprezzo dei «vecchi». Anche i partiti più ostili alla guerra fiancheggiavano ormai le imprese belliche, o comunque smorzavano i toni pacifisti, anche per tema della reazione di chi li tacciava di tradimento. Persino parte del clero abbracciava l’entusiasmo per la guerra, nonostante il neutralismo del Vaticano. Ma la deplorazione del Pontefice per l’«orrenda carneficina che da un anno ormai disonora l’Europa» divise ancora l’opinione pubblica: i giornali cattolici abbracciavano la tesi della guerra come rottura del diritto, mentre non solo i giornali massoni ed anticlericali, ma anche i nazionalisti, vicini agli ambienti cattolici, respingevano l’exortatio apostolica ritenendo sacrosanto il “diritto” della Nazione di realizzarsi.
La vita quotidiana scorreva intanto ordinata, perché la gente che era rimasta a casa faceva ordinatamente il proprio dovere. Contrariamente alle altre potenze belligeranti, l’Italia non aveva interrotto i collegamenti ferroviari. Massiccia fu la partecipazione di popolo alla guerra. Alle coscrizioni si aggiunsero gli arruolamenti volontari: numerosi i casi di giovani che si presentarono al fronte falsificando i documenti per simulare l’età dell’arruolamento. Ma mancarono anche anziani reduci dalle guerre precedenti che non vogliono perdere l’ultima occasione per combattere. Una notazione particolare per gli italiani irredenti che fuoriuscivano per combattere per l’italianità della propria terra. Gli italiani emigrati all’estero negli anni precedenti furono arruolati, ma Volpe nota l’impreparazione dei consolati d’Oltreoceano nel far fronte alla coscrizione e persino a fornire ai volontari la necessaria assistenza per raggiungere i connazionali al fronte. Ma tutto sommato, in quel primo anno di guerra, la macchina bellica, faticosamente, si mise in moto di guisa che tutto funzionasse in supporto dei combattenti: sia il supporto logistico, sia il supporto economico di chi era rimasto a casa non mancò al fronte. Sottoscrizioni vennero aperte in tutta Italia e furono raggranellati fondi per sostenere lo sforzo bellico. La guerra diventava sempre più una guerra di popolo.
Lo scritto di Volpe è chiosato da numerosi interventi dei curatori, con ampi richiami bibliografici per approfondire i temi trattati dal grande storico del Novecento. Il volume è poi preceduto da un poderoso saggio di Eugenio Di Rienzo, già biografo di Gioacchino Volpe. Di Rienzo ripercorre il pensiero di Volpe riguardo alla genesi di quella guerra, vista come occasione di (ri)proposizione della questione nazionale italiana.
La Nazione italiana comincia a proporsi nel XII secolo, e conosce una grande forza espansiva fin quando perde il predominio sul Mediterraneo e terre italiane abitate da Italiani si saldano ad organismi politici non italiani: Istria, Dalmazia, Malta, Ticino, Corsica, Nizza. L’occasione data dalla guerra non era certo quella di recuperare una centralità europea, ormai perduta per sempre, ma quella di difendere l’italianità lì dove non era ancora tramontata: «Questa conservazione e difesa dell’italianità nel mondo, sia essa inconsapevole e latente o consapevole e spiegata come una bandiera, noi la dobbiamo volere per un senso di fraterna solidarietà con chi ci è affine di sangue, di memorie, di linguaggio». Volpe intende la Nazione come un legame comunitario, un’entità storica, «etnia», non «razza», una serie di affinità culturali, linguistiche, identitarie, che il legame di sangue poteva rafforzare, non determinare.
Nella sua produzione, Volpe si occupa dell’idea di Nazione, anche se non ha mai affrontato il tema ex professo, affermando, nel 1914: «Noi non crediamo di poter formulare una dottrina della Nazione e del nazionalismo». Ma, nota Di Rienzo, sia nei suoi scritti, sia – soprattutto – nella sua azione politica, è chiaro il concetto che egli ha della Nazione, com’è chiaro che la guerra viene vista da Volpe come occasione per l’emergere definitivo delle identità nazionali, notando il declino di quei “corpi misti” costituiti dagli Imperi Centrali, ma respingendo la pretesa, propria di massoni e socialisti, di vedere la guerra come uno scontro tra le “civiltà” dei regimi dell’Intesa contrapposte allo “oscurantismo” dei regimi degli Imperi Centrali. Volpe sente la necessità di creare un’identità italiana che superi i localismi ed i contrasti di classe trascendendoli in nome dell’interesse nazionale. Di Rienzo prende atto che Volpe nel dopoguerra vide nel Fascismo il mezzo attraverso cui raggiungere questo fine.
Di Rienzo ripercorre le tappe di Volpe nel dibattito sull’intervento in guerra, notando non solo le polemiche contro i neutralisti, ma anche quella contro chi accampava per l’intervento ragioni diverse da quelle da lui propugnate. Non solo respingeva la tesi dello scontro tra regimi diversi, ma anche la germanofobia che cominciava a serpeggiare, non senza stoccate verso chi da germanofilo si scopriva improvvisamente militante del campo avverso: «perché è germanofoba, vuole dispregiare il nemico, anche se fino a ieri l’adorava. Ieri servi, oggi liberti, mai uomini liberi».
Di Rienzo, dunque, ricostruisce il pensiero di Volpe riguardo alle ragioni per sostenere la necessità dell’intervento, sintetizzato dall’appello di Volpe alla popolazione milanese alla vigilia dell’intervento, il 23 maggio 1915: «Il governo di Antonio Salandra avviava l’Italia alla sua maggiore impresa nella storia, alla liberazione dei fratelli tutti, minacciati di sterminio, all’integrazione del confine naturale, alla sicurezza dell’Adriatico romano e veneziano, alla partecipazione nell’opera di salvezza dei minori popoli brutalmente aggrediti».
Di Rienzo rileva che l’interventismo di Volpe era speculare al “neutralismo riflessivo” di Croce, entrambi mossi da una esigenza di Realpolitik che evitasse lo scivolamento verso eccessi sciovinistici, esigenza che se per Croce era da soddisfare restando neutrali, per Volpe, viceversa, doveva trovare il suo sbocco in un “intervento ponderato”, che lasciasse da parte il Faustrecht di stampo germanico che serpeggiava tra molti degli interventisti e tenesse la barra dritta verso i reali interessi italiani: recuperare le terre irredente e trovare sicurezza sul confine orientale evitando che l’altra sponda dell’Adriatico fosse una “sponda nemica”.
Un libro da non perdere, se si vuole veramente comprendere un evento come la Grande Guerra che ha segnato i destini dell’Europa.
(Pubblicato il 22 dicembre 2019 © « Quotidiano del Sud»)