di Giampietro Berti
È possibile individuare la cifra politica autentica del Novecento? Pensiamo che si debba rispondere di sì indicandola nella radicale contrapposizione fra la liberaldemocrazia e i suoi molteplici nemici. Ne abbiamo ora un’ulteriore prova con i risultati di un’importante ricerca storiografica riguardante la seconda guerra mondiale: Eugenio Di Rienzo, Emilio Gin, Le potenze dell’asse e l’Unione Sovietica 1939-1945, Soveria Mannelli, Rubbettino, pp. 514, € 19,00. Si tratta di un tassello molto significativo a sostegno di questa interpretazione. Gli autori ritengono insoddisfacente il paradigma politically correct che vede nella lotta tra fascismo e antifascismo la verità ultima e profonda del secondo conflitto mondiale, i cui esiti segnarono in modo decisivo il Novecento fino alla fine della Guerra fredda.
In realtà lo scontro tra fascismo e antifascismo fu meno univoco e definitivo di quanto si pensi perché fino all’autunno 1940 il vero Patto d’Acciaio non fu quello tra Roma e Berlino ma quello tra Berlino e Mosca; un accordo, questo, che avrebbe dovuto trasformarsi «in una “Coalizione planetaria” destinata a comprendere anche Italia e Giappone volta a distruggere il predominio mondiale anglo-americano». Tale coalizione doveva stringere in un’unica morsa l’Europa, l’Asia, l’Africa, dall’Atlantico al Pacifico, generando una granitica intesa militare a fronte della quale poco avrebbero potuto fare l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Insomma, un blocco euroasiatico centrato sull’alleanza fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo contro il nemico comune: la società capitalistico-borghese fondata sull’ethos individualista del tutto avverso a una concezione della vita affidata alla potenza suprema dello Stato totalitario, rosso o nero.
Se questa prospettiva politico-militare non si concretizzò fu perché le frizioni russo-tedesche nei Balcani, l’eroica resistenza della Gran Bretagna e la possibilità di un imminente intervento degli Stati Uniti fecero temere ad Hitler che il Reich si sarebbe trovato nuovamente costretto a combattere un conflitto su due fronti, proprio come era accaduto nella prima guerra mondiale. Di qui l’invasione dell’Urss con lo scopo di ridimensionarne la potenza, senza giungere però alla sua totale eliminazione. La guerra, in altri termini, doveva solo assicurare alla Germania conquiste strategiche, approvvigionamenti alimentari e petroliferi in Ucraina e in Caucaso. Una volta che la potenza comunista fosse stata opportunamente ridimensionata, Stalin sarebbe stato costretto a trattare da posizioni di debolezza e l’Urss sarebbe rientrata nello schieramento euroasiatico come Middle West della nuova Europa.
In effetti, anche quando, nel giugno 1941, le colonne corazzate tedesche irruppero in territorio sovietico, il filo nero dei rapporti tra l’Urss e l’Asse non s’interruppe. Contatti sotterranei e clandestini proseguirono fino alla fine del 1944 grazie alla mediazione del Giappone e dell’Italia per arrivare a una pace di compromesso tra il colosso comunista e l’Europa sottomessa al Nuovo Ordine nazista. Relazioni che videro quali protagonisti personaggi come Himmler e Goebbels e alti ufficiali della Wehrmacht.
A sostegno di questa tesi Eugenio Di Rienzo ed Emilio Gin portano una vasta ed inedita documentazione archivistica, reperita negli archivi diplomatici britannici, francesi, statunitensi, italiani, tedeschi, giapponesi; essa è incrociata con continui e puntuali riscontri bibliografici di varia natura. Fonti che sono esaminate con grande acribia filologica e con uno smaliziato metodo di lettura diretto a interpretare sia ciò che è esplicito, sia ciò che è implicito perché, si sa, l’attività diplomatica è sempre enigmatica nei mezzi e nei fini: dice e non dice e, a volte, il non detto è più significativo del detto.
In conclusione, Di Rienzo e Gin rovesciano la vulgata storiografica che ha voluto vedere nel patto di non aggressione Ribbentropp-Molotov del 23 agosto 1939 un provvisorio accomodamento attraverso il quale il Cremlino avrebbe guadagnato il tempo sufficiente per prepararsi a sconfiggere il Moloch nazista. Un’interpretazione, troppo ingenua, fondata su un’idea univocamente deterministica del conflitto bellico visto con gli occhi del suo risultato finale. Ferma restando, ovviamente, la divisione radicale tra comunismo e nazifascismo, è esistita per Di Rienzo e Gin anche un’altra irriducibile dicotomia, espressa dalla logica implacabile della Realpolitik, del tutto indifferente alle codificazioni ideologiche perché rispondente solo all’eterna riproposizione dei rapporti di forza fra gli Stati diretti a trarre specifici, unilaterali vantaggi nel gioco mutevole degli equilibri internazionali. Rapporti dominati sempre da una volontà di potenza di carattere eminentemente geopolitico.
Dal volume di Di Rienzo e Gin si ricava, ancora una volta, questa lezione: la storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s’intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Siamo sicuri, tuttavia, che questa ovvietà sconvolgerà le certezze tetragone di una visione della storia del XX secolo che sempre più appare rintanata nella sua pietrificata codificazione ideologica, ormai fortunatamente in via di dissolvimento.
(Pubblicato il 30 aprile 2013 – © «il Giornale»)