di Giovanni Carosotti
Tra i numerosi studi pubblicati negli ultimi tre anni (due importanti monografie, riflessioni relative all’unità d’Italia e alla questione meridionale, e una significativa incursione nella storia più recente del nostro paese -Tangentopoli-), Aurelio Musi ha dedicato un’attenzione particolare anche alla storia dei sentimenti. A Storia della solitudine (2021), concepita significativamente durante il periodo del lockdown, segue ora Malinconia barocca (Vicenza, Neri Pozza, 2023, € 13,50). Si tratta di una tipologia di studio che pone allo storico impegnative questioni metodologiche, situandosi in un campo di ricerca in cui il lavoro di ricostruzione a partire dalle fonti richiede uno sforzo ermeneutico decisamente più rischioso, dovendosi confrontare con riferimenti fattuali evidentemente più sfuggenti. Nel caso di Malinconia barocca, l’orizzonte cronologico è circoscritto a quella modernità che coincide con il periodo maggiormente studiato dallo storico, che ha insegnato Storia moderna all’Università di Salerno. Se nello studio precedente la riflessione si estendeva dall’epoca antica alla condizione contemporanea, in questo caso la malinconia viene indagata esclusivamente quale manifestazione rappresentativa di un’epoca e di un movimento culturale (il barocco), sulla cui singolarità (molto più complessa di quanto una tradizione storiografica abbia inteso) lo storico vuole sollecitare l’attenzione del lettore. «Al concetto di Barocco», come viene immediatamente precisato all’inizio dell’Introduzione, «non è toccata in sorte la stessa fortuna che ha avuto quello di Rinascimento o di Illuminismo […]», movimenti, questi ultimi, rispetto ai quali è senso comune scorgere l’origine di alcuni segni distintivi della modernità occidentale. La marginalizzazione del Barocco, invece, ha risentito del giudizio negativo che su tale movimento si diffuse alla fine del Settecento, ma anche presso la critica letteraria tardo ottocentesca (De Sanctis e Croce fra gli altri). Questo “riduzionismo” critico ha fatto sì che non si cogliessero con adeguata profondità i segni che fanno della malinconia barocca una manifestazione del disagio della modernità, le cui tracce sono particolarmente ben visibili nella nostra epoca: dalla schizofrenia del quotidiano, all’ambivalenza, al senso di vuoto e a una più generale condizione di alienazione. «La malinconia è la condizione media che si insinua nella struttura bipolare del Barocco dominata da una serie infinita di coppie oppositive: certezza e instabilità, ragione e pazzia, riflessione e tormento, dissimulazione e apparenza. E la politica come disciplina è chiamata a governare la condizione bipolare dell’uomo moderno.»
Siamo propensi a pensare (ma non ne abbiamo alcuna certezza) che la motivazione a concretizzare questa ricerca sia dovuta anche all’intenso studio che ha preceduto la pubblicazione della monografia su Filippo IV, alla cui figura viene dedicato un breve ma prezioso capitolo: «Nel sovrano asburgico sono riconoscibili tutti i segni della malinconia come Stimmung: la tristezza, l’inibizione, la sofferenza, l’angoscia, lo scacco della speranza sono gli effetti del conflitto fra vita dissoluta e sensi di colpa». Una condizione già ereditata dalla madre, che si concretizza in un senso di colpa per non saper evitare le sofferenze del proprio popolo, in un’incapacità di resistere alle tentazioni della carne, per cui le disgrazie personali e politiche del suo impero vengono interpretate alla luce di una punizione divina; psicologia tormentata, di cui è testimonianza la straordinaria e drammatica corrispondenza con suor Maria di Àgreda, la sua consulente spirituale e politica. Un senso di smarrimento dunque che coinvolge tutto, i potenti come il popolo, l’individuale e la costruzione politica: «quel sentimento di alienazione, dell’uscir fuori dall’ordine naturale, dalla carreggiata ordinaria, quando persino dal proprio sovrano si sentiva dire “che tutto pareva sul punto di colare a picco”».
L’intero studio di Musi è impostato a partire dall’analisi, che occupa quasi metà dell’opera, di Anatomia della malinconia di Robert Burton, pastore anglicano di straordinaria cultura nell’Inghilterra del XVII secolo; è questo studio che consente di contestualizzare le successive testimonianze della malinconia barocca, in un discorso dalle numerose sfumature. Burton amplia infatti lo sguardo a una serie di manifestazioni e sintomatologie (somatiche quanto psicologiche) non contemplate dalla tradizione, in particolare la medicina antica, che pure alla malinconia aveva dedicato parte delle sue riflessioni. Burton è in grado di cogliere sia la varietà delle manifestazioni (spesso apparentemente contraddittorie) con cui il sentimento si presenta, capace di far sperimentare al soggetto che la vive sensazioni sia di piacevolezza sia di dolore; sia di rendere ragione della complessa relazione mente-corpo sperimentata dal malinconico, che si differenzia in varie forme, dalla malinconia d’amore, alle malinconie nazionali, alla melanconia religiosa. In questo modo Burton può fare riferimento senza contraddirsi a tutta la riflessione precedente, arricchendola però con osservazioni e deduzioni decisamente più ardite e innovative. «La modernità di Burton è innanzitutto nella sua visione olistica, unitaria della malinconia. Essa è un sentimento-sistema, per così dire: unità di corpo e mente, fondata sull’interdipendenza fra le parti del primo e quelle della seconda e sul trait-d’union delle emozioni che le riunisce tutte». Grazie a tale visione olistica Burton può elencare le più diverse sintomatologie (somatiche e psicologiche) della melanconia, e proporre un inventario di tutte le fobie di un’epoca di crisi. É proprio il concetto di crisi che consente un’efficace proiezione sui tempi attuali; rendendo il soggetto contemporaneo particolarmente adatto a comprendere tale scissione della personalità. D’altronde, la modernità dell’analisi si rivela proprio nell’«ambigua tensione di Burton tra precettistica e condizionamento delle passioni» con cui, da una parte, fornisce consigli per una terapia, dall’altra esprime una consapevolezza pessimistica sull’impossibilità di «uscire per sempre dalla condizione malinconica»; contraddizione giustificata dal fatto che «è la stessa malinconia a essere ambivalente».
Ambivalenza che si mostra nell’unità di follia e saggezza, in un comportamento vicino alla pazzia, ma capace di un linguaggio che esprime contemporaneamente lucidità e verità. Un conflitto psicologico evidenziato con efficacia da Musi, grazie alla sua profonda conoscenza del pensiero di Freud (si ricordino Freud e la storia e Memoria, cervello, storia in cui si sostiene l’importanze per uno storico di una approfondita conoscenza delle dinamiche psicologiche e cognitive); ma anche il riferimento a Foucault è costante, in quanto permette quel lavoro, propriamente storico, di classificazione e spazializzazione del dolore, che non confina la malinconia alla pura diagnosi patologica («Secondo Foucault bisogna porsi e mantenersi a livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentale del patologico, là dove ha origine e si raccoglie lo sguardo eloquente che il medico posa sul cuore velenoso delle cose»).
Lo studio prosegue analizzando, proprio secondo questa prospettiva, varie personalità: da Cervantes, già oggetto di approfondite valutazioni in Storia della solitudine, a Descartes e Spinoza fra gli altri. Un’incursione in alcuni tratti della soggettività (p.es. l’analisi dei tre sogni di Descartes, oggetto d’attenzione anche da parte di Freud), di indubbia importanza anche per la comprensione della loro produzione intellettuale. Sconvolgente la descrizione di una delle allucinazioni più diffuse della melanconia barocca, quella dell’uomo di vetro, laddove il soggetto teme di potersi disintegrare al minimo urto. Fobia di cui soffriva Carlo VI di Francia, e oggetto di diverse opere letterarie. Secondo l’interpretazione psicoanalitica, un simbolo della rottura dell’«equilibrio narcisistico», propria del soggetto malinconico.
Un capitolo specifico è dedicato alla “malinconia femminile”; la pluralità dei caratteri delle personalità indicate (Artemisia Gentileschi, Lucrezia Barberini, Apollonia Ventiquattro, Veronica Giuliani) potrebbe far sembrare strumentale l’isolare in pagine specifiche il riferimento al genere. In realtà questa attenzione specifica alla sensibilità femminile porta ad approfondire secondo una prospettiva singolare la particolare relazione tra malinconia e corpo. Per quanto riguarda la pittrice, Musi propone un’ampia disamina delle diverse fasi della sua attività artistica; e mostra come proprio il riferimento alla malinconia consenta di emanciparsi dal semplice cliché della «donna vendicatrice». In queste donne, dal destino molto diverso, la malinconia sembra dare luogo a un processo di sublimazione che, nel caso della Gentileschi, trova sfogo proprio nell’operare artistico. Nella Maria Maddalena come la melanconia Artemisia «offre invece un’altra espressione della malinconia barocca. […] una malinconia ritratta non nella fase della sua tensione, bensì in quella della sua risoluzione agognata; una risoluzione che negli occhi chiusi aspira quasi a una sospensione eterna. […] la sublimazione della sofferenza del suo vissuto, della malinconia, della depressione del genio artistico: questa fu Artemisia Gentileschi». Ciò che invece accomuna le altre tre personalità femminili è la scelta a favore di una vocazione mistica radicale, la solitudine del convento, la mortificazione del corpo che si manifesta attraverso una chiara propensione anoressica. Storie diverse (nel caso di Lucrezia la sua vocazione fu a lungo impedita dalle esigenza della propria famiglia aristocratica) mostrano ancora una volta il carattere contemporaneamente individuale e collettivo della malinconia, in una tensione tra la propria individualità e l’evidenza di essere parte di un tutto che condiziona il nostro ruolo (come già in Filippo IV). Ne deriva una serie di comportamenti schizofrenici in cui al centro vi è la questione della corporeità: «In queste donne molto spesso il controllo del corpo si rivela uno scacco: e la malinconia ne rappresenta la manifestazione più evidente». Al centro vi è sempre un «conflitto di passioni». I «rimorsi per i desideri passati» in Francesca Farnese, laddove la malinconia «derivava da un grandissimo rimorso interno di coscienza». In Apollonia «la malinconia è un vero e proprio nutrimento dell’anima che sostituisce il nutrimento del corpo. La sostituzione non è indolore, i costi sono elevati, e si configurano soprattutto come malattie psicosomatiche e anoressia». Un controllo del corpo, dunque, che si vuole assoluto ma che sfocia poi in sintomi devastanti, a sancire lo scacco di questo tentativo di radicale spiritualizzazione. Si tratta in fondo di «storie di spersonalizzazione», dove i personaggi «vivono una doppia realtà, una di fatto e una fantastica».
Significativa anche l’analisi comparata, nelle pagine conclusive, tra Tasso e Marino; nel caso dell’Adone, con la doppia proiezione dell’Autore nei personaggi opposti di Mercurio e di Adone. La prospettiva permette di cogliere meglio il carattere di una «poesia falsamente solare, il buio e il chiuso sono la sua matrice».
Malinconia barocca, con le sue sollecitazioni intellettuali, è anche un testo di grande rilevanza metodologica. Non solo perché accetta il rischio di un’indagine storica di frontiera, come abbiamo notato all’inizio; ma perché dimostra quanto la considerazione di tali aspetti -ne è un esempio, del resto, la stessa monografia su Filippo IV- risulti decisiva, e in qualche modo irrinunciabile, per un’interpretazione storica adeguata, anche quando rivolta a contesti politici e, in generale, a tutti i fatti che rientrano nella storia evenemenziale. Il non tenere conto di questo dato pregiudica in alcuni casi l’analisi storica, in quanto il non saper interpretare in base a un contesto epocale il moto dell’animo origina poi processi di mitizzazione o giudizi moralistici che compromettono l’affidabilità scientifica dell’analisi.
(Pubblicato il 30 maggio 2023 © «Nazione Indiana» – Recensioni)