di Luigi Morrone
Il rapporto di Benedetto Croce con il fascismo non è stato mai sufficientemente approfondito in sede storiografica, anche per la tendenza ad utilizzare la storia quale continuazione della politica con altri mezzi. La lacuna viene ora colmata da Eugenio Di Rienzo, con il volume, Benedetto Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino Editore), opera di uno storico che ha sempre adottato il monito tacitiano: «incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est» (Chi professa una fedeltà incorrotta al vero deve parlare senza amore né odio). Proprio per il suo amore per il Vero, Di Rienzo sviluppa la sua analisi dei rapporti tra il filosofo di Pescasseroli ed il Fascismo senza alcuna indulgenza alla propaganda, con un’attenta analisi dei fatti e del quadro storico di riferimento (quadro storico già oggetto di approfondita disamina nella sua biografia di Ciano).
Circa il giudizio di Croce sul regime, si è soliti limitarsi a quanto da lui detto nel 1943, con il paragone del regime con la «invasione degli Hyksos, con la sola felice differenza che la barbarie di questi durò in Egitto oltre dugento anni, e la goffa truculenza e tumulenza fascistica si è esaurita in poco più di un ventennio». La tendenza della storiografia a semplificare le analisi, con quella suddivisione tra “buoni” e “cattivi” stigmatizzata dal medievista francese Jacques Heers, è forse il motivo del mancato approfondimento del tema, poiché per demonizzare del fascismo bastava e avanzava il giudizio tranchant di un Gigante della filosofia. Eppure, una presunta “ambiguità” del rapporto tra Croce ed il regime era stato argomento di polemica feroce da parte di Salvemini, che addebitava proprio al liberalismo di Croce la responsabilità dell’avvento del fascismo.
L’analisi di Eugenio Di Rienzo parte proprio dalla constatazione che il giudizio di Croce su riportato va inquadrato nel momento politico in cui fu espresso. Si era reduci da una sconfitta militare, pregnante era l’esigenza di disgiungere le responsabilità dell’Italia da quelle del fascismo e, dunque, il giudizio crociano è da ascrivere alla stregua di uno “slogan” afferente ad esigenze politiche, più che ad acribia storica. Partendo da tale constatazione, Di Rienzo ricostruisce la vita di Croce intersecante la parabola fascista tenendo ben presente la cornice storica di essa. Dall’alba del fascismo e da come questo dovette apparire alla classe politica liberale, all’Aventino, al Concordato, agli anni del consenso, alle leggi razziali, alla guerra, tutto viene esaminato con rimbalzi tra l’opera di Croce e la politica del regime, e continui richiami alla posizione del Croce rispetto al fascismo e dei fascisti rispetto al Croce.
E l’alba del fascismo vide una sorta di “apertura di credito” di Croce verso il nascente movimento. Il filosofo vedeva, palpava con mano la crisi dello Stato Ottocentesco, cui tributava gl’indubbi meriti, ma che già aveva dovuto soffocare nel sangue i moti del 1898, ed appariva incapace di affrontare il “mondo nuovo” sorto dalle macerie della Prima guerra mondiale. Ed in questo sfacelo intravvedeva nel Fascismo nascente una possibilità di cavalcare il nuovo, laddove – invece – altri intellettuali di estrazione liberale (Fortunato, Borgese, Dorsi, Albertini, Zanotti Bianco), intuirono il pericolo insito in chi, per l’affermazione della propria visione delle cose, ricorreva a quella violenza che, secondo l’insegnamento di Marx, è “levatrice della storia”. Arrivò a votare la fiducia al Governo Mussolini persino dopo il delitto Matteotti, nella speranza che il fascismo fosse un momento di transizione verso l’affermazione di uno stato liberale «più severo, nel quadro di uno Stato più forte».
Dovette disilludersi e ne trasse le conseguenze. Come Giolitti, non approvò la scelta “aventiniana”, che finì per spianare la strada alla trasformazione del fascismo, e – partecipando ai lavori parlamentari – si astenne o votò contro le “leggi fascistissime” del biennio 1925-1926, che liquidavano le guarentigie sistema statutario. Aderì al rinato partito liberale, pur nella consapevolezza del velleitarismo della sua (ri)costituzione, «per porsi accanto a nobili cuori, di quelli, che, come dice il poeta, sanno amare le fortune avverse». Firmò il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” apparso sul Mondo di Amendola il 1° maggio 1925 e, soprattutto, ruppe il pluridecennale sodalizio filosofico con Giovanni Gentile che, con la sua teorizzazione dello Stato Etico aveva dato una veste ideologica all’impianto delle “leggi fascistissime”. Il coagulo del ceto intellettuale ostile al regime si strinse definitivamente attorno a Croce quando egli pronunciò in Senato un discorso fermo contro l’approvazione dei Patti Lateranensi il 24 maggio 1929. Dal proscenio del Senato e dalla sua attività intellettuale Croce assistette all’ascesa del regime ed al consenso che Di Rienzo riconosce «vasto, duraturo e pressoché incontrastato a cui solo il netto profilarsi della catastrofe militare pose fine nella seconda metà del 1942», consenso tributato in una sorta di “bolscevismo nero” che Croce ritiene speculare al “bolscevismo rosso” impostosi in Russia dopo il 1917. La sua avversione al regime non gl’impedì, comunque, pur con le lacerazioni che importarono certe scelte, a non auspicare la sconfitta militare nella campagna di Etiopia (che, in fondo, era una prosecuzione di quella politica coloniale dell’Italia liberale alla quale Croce non era stato certamente ostile): aderì all’iniziativa del Regime dell’oro alla Patria per controbilanciare le conseguenze economiche delle sanzioni della Società delle Nazioni. Non la auspicò neanche nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro le potenze liberaldemocratiche: Croce era italiano, prima di essere antifascista.
Va comunque detto che il più forte, vero momento di attrito con il regime fu subito da Croce nel momento in cui montavano le idee razziste. Ancora il 9 maggio 1936 Mussolini aveva annunciato la fondazione dell’Impero dichiarando: «Questo è nella tradizione di Roma, che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino». Proprio in quel periodo, Croce pubblicava su La Critica degli scritti di Thomas Mann, auspicanti la cessazione delle “dittature muscolose” in Italia, Germania e Russia. L’articolo passò inosservato fin quando, nel 1938, fu pubblicato da un giornale sionista per il suo violento attacco alle politiche antiebraiche della Germania nazionalsocialista. La cosa non passò inosservata dagli intellettuali razzisti, che accusarono Croce di tramare con i nemici dell’Italia, identificati con gli ebrei. Croce annotò di non essere pentito di aver pubblicato quegli scritti. Tuttavia, anche in questo caso, il regime non adottò alcun provvedimento nei confronti di Croce, né lo fece quando, in un’intervista del 1940, accomunò in un’unica critica il materialismo storico e razzismo, affermando: «anche il razzismo è negazione della storia».
Si ritorna – dunque – al punto di partenza: il fascismo per Croce non fu la “parentesi”, la “invasione degli Hyksos” di cui parlò nel 1943, né fu la “autobiografia della Nazione”, come sostenne Gobetti, accomunando in un’unica condanna il fascismo e l’animo italiano. Fu un fenomeno storico con le sue sfaccettature, che arrivò al potere perché seppe meglio di altri interpretare lo Zeitgeist del primo dopoguerra ed ebbe il consenso popolare fino al disastro militare. Di tutto ciò era ben consapevole Croce, pur con tutta la sua avversione ad un regime che aveva soffocato la «libertà che era costata tanti sforzi e tanto sangue e si teneva dalla mia generazione un acquisto per sempre». Dal ritratto di Croce sapientemente tratteggiato da Di Rienzo, emerge il personaggio in tutta la sua autorevolezza, ma, soprattutto, scevro dalle distorsioni che certa storiografia “orientata” ha appuntato su di lui, facendone una sorta di “liberal”, con una “appropriazione indebita” del suo personaggio da parte di un ceto politico e intellettuale in cerca d’autore.
(Pubblicato il 7 febbraio 2021 © «Quotidiano del Sud»)