di Alessandro Guerra
«Senza i necessari temperamenti, si è voluto riunire il soverchio potere colla breve durata e coll’elezione; si è fomentata l’ambizione ed il sospetto, ed invece della libertà si è ottenuta la guerra civile». Così scriveva nel 1801 Vincenzo Cuoco nel tentativo di spiegare il fallimento della rivoluzione a Napoli e in Italia e il dilagare della guerra civile fra sanfedisti e repubblicani che di fatto aveva sancito la sconfitta di ogni processo riformistico, avviando l’Italia al conformismo dell’Impero napoleonico prima, e alla cupa morale della Restaurazione poi. Parole forti e severe che pur in un contesto diverso tornano in mente leggendo l’ultimo lavoro di Fabio Fabbri (Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Utet, XXXVI-712, € 28,00), dedicato alla ricostruzione del fallimento dello stato liberale e all’avvento del fascismo. Come dopo la discesa di Bonaparte, l’Italia era uscita dalla Grande Guerra stremata e lacerata da mille contraddizioni, stretta fra la sofferta condotta bellica e l’utopico futuro di gloria a cui la vittoria finale sembrava comunque assegnarla. La stessa sintetica definizione di «vittoria mutilata» serve a racchiudere bene la delusione e la conseguente carica di rancore che assalì chi vedeva sfumare per l’Italia il suo futuro radioso. E però, piuttosto che fare i conti con le proprie fragilità e incoerenze, la classe dirigente e i vari nazionalisti preferirono specchiarsi nella rivoluzione bolscevica per plasmare l’immagine del «nemico interno» alla nazione. In tal modo, socialisti e comunisti, che pur con sfumature diverse guardavano all’esperienza dei Soviet, vennero individuati dalla propaganda governativa come l’ostacolo da rimuovere per far risorgere la grande Italia.
Il fascismo fu abile a riprendere questa linea e a convogliarla sul terreno dell’azione diretta. Per quanto sia ormai desueta la parola, era il conflitto di classe a contrapporre e radicalizzare gli schieramenti, dividendo la comunità nazionale: due citazioni proposte da Fabbri offrono una chiave di lettura che merita di essere valutata. La prima è di Antonio Gramsci, che parla di operai e contadini impegnati nelle dure lotte del 1919-1920 come «isolati nella nazione», descrivendo plasticamente la frattura verticale che lacerava la società italiana; l’altra è di Luigi Sturzo, secondo cui non era l’ombra di Mosca a turbare il ceto medio, bensì la crisi generale del sistema di valori che ne aveva supportato il primato sociale; crisi di valori che, saldandosi con il rimpianto dei tempi antichi, costituì uno degli elementi psicologici della reazione. A Fabbri preme soprattutto segnalare come proprio la categoria di «guerra civile» risponda alla natura del conflitto che si scatenò con la chiusura della prima guerra mondiale e spieghi meglio di altri fattori l’origine del fascismo. In altre parole l’autore sposta significativamente indietro la verifica delle condizioni valide per poter parlare di «guerra civile», contestando l’uso ideologico che ne è stato fatto per decifrare unicamente lo scontro fra fascisti e partigiani, e discutere così della moralità della Resistenza. In tal senso, chiarisce l’autore, l’assunzione della categoria di bellum intestinum diviene un’efficace chiave storiografica in grado di spiegare le drammatiche vicende del primo dopoguerra e, di conseguenza, aiuta a comprendere le ragioni che sollevarono la spirale di violenza che investì senza distinzioni gli attori sociali di quella rappresentazione. Non da ultimo l’esplosione dell’ammutinamento sociale del sovversismo rosso che alimentò il fantasma di un «1917 italiano,» che fu in realtà una «rivoluzione senza rivoluzione», ma anche la violenza della repressione degli organi statali e la reazione speculare che l’evidente ingiustizia di quell’esercizio arbitrario generò nelle masse popolari.
Rileggendo Gramsci, l’autore registra dunque tappa dopo tappa il venir meno dello stato legale e il combinato di violenza squadrista e repressione poliziesca che si abbatté sul movimento operaio e contadino accusato di voler fare come in Russia. Una sorta di consenso all’uso della violenza repressiva che vide la connivenza di prefetti, organi di pubblica sicurezza, vertici militari e magistratura, e che prima ancora del consenso di massa agevolò il fascismo nell’opera di disgregazione dello Stato e delle sue pallide garanzie liberali. Ogni episodio di questa escalation nell’uso reso legittimo della violenza fascista, grazie alla complicità fornita dal governo, è censito con dovizia da Fabbri, fino al culmine dei fatti di Palazzo d’Accursio del novembre 1920, che senza dubbi segna la chiave di volta per la vittoria del fascismo. Una vittoria che la marcia su Roma di due anni dopo avrebbe soltanto ratificato.
(Pubblicato il 24 dicembre 2009 – © «Il Riformista»)