di Saro Freni
Filosofo, storico, letterato, senatore, ministro, Benedetto Croce fu una delle più influenti e rispettate personalità del suo tempo. Fu un maestro per molti studiosi, pur non essendo un professore. E fu anche un politico, ma più per spirito civico che per vocazione. Per aver successo in politica sono necessarie molte qualità, di cui era forse sprovvisto; e altrettanti vizi, da cui per sua fortuna era immune.
In una recente pubblicazione – Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino, 2019) – Eugenio Di Rienzo ricostruisce un breve ma decisivo periodo della vita del filosofo, a cavallo tra la guerra e il dopoguerra: un periodo pieno di speranze, ma anche di sofferenze, delusioni e amarezze. In quegli anni convulsi, Croce rivestì un ruolo notevole e fu un imprescindibile punto di riferimento, almeno per gli italiani che ancora si riconoscevano negli ideali liberali. Pur consapevole dell’importanza di un profondo rinnovamento del paese, non auspicava salti nel buio e temeva tanto il radicalismo quanto la restaurazione, tanto il pericolo di sbocchi rivoluzionari quanto quello di involuzioni autoritarie. Questa sua cautela spinse alcuni critici a vedere in lui un baluardo della conservazione. Confinatosi – per storia e per convinzioni – in una posizione politicamente minoritaria, subì attacchi sia dai fascisti che dai comunisti.
Se il filosofo un tempo crociano Edmondo Cione, che aveva aderito alla Rsi, gli rivolgeva fantasiose calunnie e si spingeva persino produrre lettere false per denigrarne la figura, Togliatti gli rimproverava la natura ambigua dei suoi rapporti con il fascismo. Come riportato nel volume, il segretario del Pci scrisse parole molto dure: “Benedetto Croce ha avuto, come campione della lotta contro il marxismo, una curiosa situazione di privilegio nel corso degli ultimi vent’anni. Egli ha tenuto cattedra di questa materia, istituendosi così, tra lui e il fascismo, un’aperta collaborazione, prezzo della facoltà che gli fu concessa di arrischiare ogni tanto una timida frecciolina contro il regime.” L’attacco amareggiò molto il diretto interessato, che nei suoi Taccuini definì l’articolo “bugiardo, calunnioso e perfido”. Le invettive del Migliore, che pure avrebbe in seguito rettificato le proprie opinioni su Croce, alimentarono – per usare le parole di Di Rienzo – “la ‘leggenda nera’ del filosofo fiancheggiatore del fascismo e del plutocrate meridionale interessato a difendere la piena proprietà dei suoi latifondi pugliesi”.
Com’è noto, Croce si trovò in forte contrasto anche con il Partito d’Azione, per ragioni filosofiche e politiche, non condividendone né i presupposti ideali, che giudicava confusi e contraddittori, né l’intransigenza, in cui vedeva una dissennata forma di giacobinismo. Questa circostanza lo divise da molti suoi allievi – a cominciare da Adolfo Omodeo – che invece vedevano nel Pd’A la quintessenza della più nobile eredità resistenziale e nella sua ideologia una concezione politica capace di combinare mirabilmente le esigenze della giustizia con quelle della libertà.
Dalle pagine di Croce riportate nel libro emergono anche i suoi giudizi sugli esponenti del vecchio liberalismo prefascista. Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi, Enrico De Nicola gli apparivano – seppur con sfumature diverse – incapaci di adattarsi ai tempi nuovi, e comunque privi dell’energia degli anni migliori. Eppure, lo stesso filosofo coltivò aspettative del tutto infondate sulle sorti del liberalismo. Così – scrive Di Rienzo – Croce pensò “di poter attuare una restaurazione dello status quo ante il 1922, nel quale in Partito liberale sarebbe tornato a essere forza centrale e decisiva nella vita politica italiana, come sostenne nell’intervista a Cecil Sprigge, il 6 marzo 1944, ipotizzando un azzardato ‘accordo tra i liberali d’Italia e le masse’. E ciò certamente avvenne per l’incapacità di rendersi conto che quella forza politica e il suo patrimonio di uomini e d’idee era stato sconfitto definitivamente dalla forza degli eventi, quando, con l’avvento del fascismo, la sua struttura notabilare fu impari a confrontarsi con quella dei ‘partiti milizia’”.
Molti fattori contribuirono al ridimensionamento dell’influenza dei liberali nell’Italia del dopoguerra: l’incapacità di adattarsi alle nuove logiche di una politica imperniata sui grandi partiti di massa (che già aveva caratterizzato il breve scorcio della vita nazionale compreso tra la fine della prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo); la forza organizzativa del mondo cattolico, verso cui confluirono vasti strati della società italiana, in funzione moderata e anticomunista; il bipolarismo imposto dalla guerra fredda, che, soprattutto in alcune fasi, dette allo scontro politico un tono propagandistico da crociata; il carattere elitario e talvolta sprezzantemente snobistico di una parte della cultura liberale e liberaldemocratica, incapace di coagulare attorno ai suoi temi le grandi masse. Per queste e per altre ragioni, le forze liberali non riuscirono – contrariamente a quanto sperato da Croce – a riconquistare centralità nella lotta politica. Ma questo sarebbe argomento per un altro libro.
(Pubblicato a luglio 2020 © «I Liberali» – Scaffale liberale)