di Carlo Felici
Quando uno storico di larga fama e dal passato illustre se non altro per il numero di pubblicazioni edite, inserisce nella sua ultima opera su Fiume e d’Annunzio il seguente brano, c’è da meditare parecchio: “Le forze occulte sconfitte a Fiume non sono una imperfezione, un caso della nostra storia. Sono la antica “Destra profonda” dell’Italia di cui, con angosciosa consapevolezza, Aldo Moro si accorse, chiamandola così nel 1977. Ne fu vittima un anno dopo. Molti difensori della legge e della democrazia fecero la sua fine.” C’è per questo da pensare quanto di ideologico ci sia nell’offrire un libro del genere alla lettura di un incauto cittadino dei nostri giorni e soprattutto quanto si possa contare sulla sua memoria corta.
Moro, si sa, fu ucciso dalle Brigate Rosse che con tutto avevano a che fare, in particolare per la loro ideologia di una sinistra settaria e criminale, probabilmente ben manovrata da forze destabilizzanti infiltrate negli apparati dello Stato, piuttosto che con una fantomatica “Destra profonda”
Ma il libro, si capisce bene, dall’inizio nasce da un pregiudizio radicato nei confronti di uno dei pochi personaggi italiani che, tra Ottocento e Novecento, in campo letterario e non solo, ha avuto larga eco nel panorama internazionale, non solo in Europa, ma anche nel resto del mondo.
Villari definisce d’Annunzio “un uomo privo di scrupoli, privo di vera gentilezza e di umana pietà” e conclude la presentazione del suo libro fatta di recente nella prestigiosa sede della Treccani, con l’espressione “corruttore del genere umano”. Si vede dunque già da ciò quanto poco la sua analisi possa corrispondere a quei due semplici parametri indispensabili che Tacito indicava per la correttezza del narrare la storia: “sine ira et studio”, ebbene in quest’ultima opera di Villari l’ “ira” c’è tutta e basterebbe già questo per renderla inattendibile.
Ma la lettura conferma che, quanto meno, l’analisi dell’opera e dell’attività politica del Vate svolta anche piuttosto frettolosamente in questo libro, è alquanto parziale pure nello “studio” ed il suo vero intento forse, oltre alle vendite nell’occasione del centenario, è il rintuzzare disperatamente tutta una serie di pubblicazioni che vanno in direzione diametralmente opposta, riproponendo, con solo qualche documento in più, per altro non significativo, i soliti luoghi comuni della vulgata la quale da tempo esige che il Vate sia stato il precursore del Duce, anche per svolgere una sorta di propaganda preventiva affinché il fiumanesimo non possa innestarsi nel solco del cosiddetto populismo che si dà oggi per dilagante. Speriamo dunque che a Villari non venga in mente di fare di d’Annunzio anche un precursore di Salvini.
Nel libro ci sono molte lacune, fin dall’inizio, quando si vuole far risaltare il nazionalismo del Vate associandolo alla guerra di Libia, tra l’altro menzionando persino Labriola, ma trascurando che anche lui ne fu a favore, saltando del tutto il rapporto di collaborazione che d’Annunzio ebbe con i socialisti all’inizio del secolo, il suo passaggio eclatante dalla destra alla sinistra in occasione del bombardamento di Bava Beccaris, per confinarlo infine in una sorta di ghetto guerrafondaio che chiama in causa anche Thomas Mann, il quale viene menzionato per alcune frasi al vetriolo contro il Vate, osservando che anch’egli fu nazionalista ma non militarista. Chissà se Villari ha letto la seguente dichiarazione di Mann agli albori della prima guerra mondiale: “Come avrebbe potuto l’artista, il soldato nell’artista, non lodare Dio per la caduta di un mondo di pace di cui era così sazio, così nauseato! Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione, d’immane speranza ci pervase allora!” Almeno il Vate nel suo interventismo acceso, evitò scrupolosamente di chiamare in causa l’Onnipotente!
Eppure per Villari “D’Annunzio smaltando parole ricercate su patriottiche “verità” (che pochi anni dopo apparvero per quello che erano, povere e pericolose) aveva ignorato le ragioni democratiche della guerra, rendendo poetici e razionali un nazionalismo omicida e delle “stupidità” verbali senza precedenti.” Chissà perché, secondo tali presupposti, d’Annunzio avrebbe poi promulgato una Carta del Carnaro che è tra i documenti più democratici dell’epoca. Su questo Villari non si sofferma in alcun modo, né menziona mai il vero autore di quest’opera solo “perfezionata” dal Vate: De Ambris, Villari lo ignora del tutto, non lo nomina mai, né nel suo libro e tanto meno nella sua presentazione, eppure egli fu proprio, insieme a Corridoni, uno dei massimi esponenti dell’interventismo democratico.
Ma gli svarioni storici, credo alquanto indegni di un “professore emerito”, non si limitano a ciò, Villari infatti scrive “il dato di fatto che la popolazione “italiana” di Fiume era minoritaria rispetto alle altre minoranze che la componevano”, eppure ci sono ancora i registri anagrafici della popolazione fiumana di quel periodo, persino quelli dell’archivio austro-ungarico che smentiscono seccamente che la popolazione italiana (senza virgolette) fosse minoritaria. Che poi questa maggioranza si fosse pronunciata per l’annessione all’Italia con un plebiscito del 30 ottobre del 1918, Villari anche in questo caso, lo ignora completamente.
Ma non basta, il “professore emerito” prosegue nella sua livorosa invettiva contro d’Annunzio asserendo che “Il nomignolo Cagoia va, a mio parere, spiegato. Corrisponde esattamente alla volgarità coprofila di d’Annunzio, ma ha una assonanza voluta con Savoia. Quasi a volere accomunare il re a coloro che erano contrari all’ondata revanscista e nazionalista”.
In realtà quel soprannome che dette a Nitti, il Vate lo spiega benissimo in un suo discorso: era il nome di un personaggio che pensava solo a campare durante la guerra senza prender parte e senza spostarsi dalla sua perdurante indifferenza ed inedia, curandosi solo del suo ventre, il termine deriva in forma dialettale da “lumaca”. Qui pertanto la denigrazione perdurante nel libro assume dimensioni quasi comiche. Come per altro risulta ridicolo attribuire a d’Annunzio la volontà di eliminare fisicamente Nitti, sulla base delle memorie di quest’ultimo, in cui egli racconta che un Ardito si sarebbe presentato da lui per ucciderlo, per poi, all’ultimo momento, vergognarsi tremante del fatto stesso e desistere da tale intento. Come se un Ardito che avesse davvero avuto tale missione da compiere, potesse pensare di vergognarsene all’ultimo momento.. non vi è per altro alcuna ulteriore testimonianza ad avvalorare tale fatto scaturito da un opportunistico vittimismo nittiano, se non quella della sua fervida fantasia.
Villari specula anche sul fatto che i fiumani avrebbero accettato per ben due volte la proposta del “modus vivendi” mediante il plebiscito e d’Annunzio avrebbe in entrambe i casi annullato il responso, ma i fatti storici e la testimonianza di Umberto Toscanelli ci dicono che “il referendum non ebbe svolgimento regolare; gli autonomisti (cioè i seguaci di Zanella che voleva fare di Fiume uno Stato libero) si dettero da fare: i croati si dettero da fare, e da fare se ne dettero anche alcuni elementi venuti dall’Italia, purtroppo.” lasciandoci così intendere che in tanto “darsi da fare” i brogli erano incontrollabili. Si votava infine con il criterio della “pertinenza” che restringeva non poco il suffragio e che era estraneo alle norme del diritto italiano. Essa era infatti qualificante l’appartenenza dell’individuo al nesso comunale ed era distinta sia dal domicilio (sede principale dei propri affari ed interessi) sia dalla residenza (dimora abituale). Si acquisiva iure loci con la nascita, iure sanguinis per via paterna, per il matrimonio con un pertinente, o in conseguenza di speciali rapporti con le istituzioni comunali che comportavano l’obbligo della residenza nel territorio del Comune stesso. Quindi non pochi domiciliati e residenti restavano esclusi dalle votazioni. Tra l’altro, poco tempo dopo l’annullamento delle elezioni da parte di d’Annunzio, gli venne riconfermata la piena fiducia da parte del Consiglio Nazionale, consapevole che da lui dipendeva unicamente la pace e la sopravvivenza della città.
Secondo i documenti riportati da Villari nel suo libro, l’impresa, soprattutto nella sua prima fase, sarebbe stata opera di vari congiurati che miravano ad un colpo di Stato reazionario per imporre una dittatura militare, e tutto ruoterebbe intorno al personaggio sul quale ci offre in lettura documenti inediti e che viene descritto come un bieco affarista, cioè Oscar Sinigaglia, ma chi era costui?
A guardar bene la storia, egli tutto sembrerebbe fuorché come ce lo dipinge Villari: ebreo, volontario nella Grande Guerra, si meritò ben tre medaglie al valore, fu acceso patriota e sostenitore della causa fiumana, negli anni 30 riorganizzò l’industria siderurgica italiana e fu presidente dell’ILVA, strana sorte per un complottardo della “Destra profonda” che fu alla fine estromesso dalla vita pubblica italiana a causa delle leggi razziali. Ancor più strano se consideriamo che già nel 1908 egli si era distinto per l’assistenza alle vittime del terremoto di Messina e dopo la seconda guerra mondiale si prodigò moltissimo per aiutare i profughi giuliani e dalmati, meritandosi nel 1952 il titolo di Cavaliere del Lavoro, ad opera della Presidenza della Repubblica Italiana. Davvero un “reazionario” molto singolare!
In buona sostanza cosa dimostrano questi documenti? Solamente che era in corso un tentativo per sostituire Nitti con un altro premier che avesse maggiori capacità nel sostenere le ragioni dell’Italia nell’immediato dopoguerra, che tale intento, se fosse stato messo in atto tempestivamente, avrebbe anche potuto portare ad un governo temporaneo di un militare con il compito di aprire una fase costituente nuova nel Paese in cui gli interessi dei lavoratori e dei reduci fossero maggiormente considerati, soprattutto per i sacrifici che essi avevano sopportato e per le promesse che erano state loro rivolte durante il conflitto, ma che erano state infine completamente rinnegate. A precisare lo scopo di questo intento rivoluzionario c’è un personaggio che identificare con la destra reazionaria sarebbe una completa assurdità: Giulietti, che era a capo del potente sindacato dei lavoratori del mare, il quale era tra i fautori di un governo, secondo le sue parole: “risolutore della questione sociale, assicurante a ognuno il frutto della sua opera e il necessario per vivere a chi è invalido, o non atto al lavoro, o ammalato o disoccupato”
Ad avvalorare che la via della forza non fosse ritenuta la principale vi è persino il resoconto che emerge in questi documenti di un dialogo tra Turati e Sinigaglia che cercava il suo sostegno per evitare uno scontro con le masse dei lavoratori rappresentate dal Partito Socialista. Un colpo di Stato esige tempestività e segretezza e questi indispensabili requisiti mancarono del tutto, lasciando stupito persino lo stesso Villari, il quale per altro ignora completamente il ruolo che ebbe la Massoneria in quel frangente, sia con Treves che con Torrigiani, prima nel promuovere l’impresa, poi nel frenarla. Ruolo per altro confermato da un autorevole storico della Massoneria come Aldo A. Mola in un suo recente articolo su Storia in rete.
Ma Villari insiste con i luoghi comuni del caos fiumano che vide ostile la popolazione di quella città, sebbene a smentire queste panzane ci siano state allora dichiarazioni di illustri personaggi esteri e persino della stampa internazionale, ne prendiamo due, una tratta da una intervista ad un architetto americano presente allora a Fiume che asserisce nel periodo iniziale fiumano, l’8 ottobre del 1919: “Io dirò ai miei connazionali che se voi siete, o meglio, se voi potete sembrare rivoluzionari, lo siete come perfetti uomini d’ordine. Io ero stato qui nell’aprile e nell’agosto di questo anno. Fiume durante l’occupazione interalleata sembrava in istato d’assedio: c’era una folla in disordine, la città era sudicia e ogni cosa aveva un indefinibile carattere di provvisorietà. Ora tutto è regolato e pacifico e nulla è in balia del caso, che per solito contrassegna i periodi di transizione” E un’altra è di un giornalista inglese durante il periodo del Natale di sangue quando, piuttosto che contestare o ribellarsi contro d’Annunzio e i legionari come asserisce Villari, la popolazione si strinse disperatamente intorno a loro.
Ecco cosa riferisce il corrispondente speciale del Times E. M. Amphlett, il 29 dicembre 1920 e sebbene la stampa inglese non fosse proprio “amica” dei legionari fiumani: “Ho letto con molta sorpresa sulla “Vedetta” di stamane che nei comunicati ufficiosi del governo italiano sugli avvenimenti di questi giorni la situazione è presentata in un modo estremamente contrario al vero, perché vi si afferma che la popolazione civile di Fiume si è ribellata due volte contro Gabriele d’Annunzio e che la sommossa è stata soffocata nel sangue. Una simile affermazione è falsa. E’ evidente che una tale relazione dei fatti è stata manipolata negli ambienti ufficiali, e ciò è molto male. Non v’è fondamento alcuno su quanto è stato scritto in tale relazione. Io sono addolorato della condotta delle autorità governative; al contrario, nella qualità di inviato straordinario del mio giornale, esprimo la mia incommensurabile ammirazione per la calma e la forza di animo dimostrati dai fiumani in questi giorni e per le dure prove sopportate da ciascuno per la causa di Fiume col più grande fervore ideale”
Evidentemente nella sua ricerca spasmodica di “documenti inediti”, Villari ha trascurato quelli che esistono da quasi cento anni, solo per avvalorare la sua tesi e screditare un periodo che ormai gli storici a larga maggioranza, non solo in Italia, ma anche all’estero, riconoscono ricco di fermenti innovativi e democratici. Villari preferisce invece tuttora difendere le ragioni di “uno Stato di diritto” che si immiserì non solo nella palese incapacità di tutelare gli interessi italiani e quelli “degli italiani” mutilati e reduci della guerra abbandonati alla disoccupazione e alla miseria, ma ebbe anche la feroce arroganza di bombardare ospedali, case di abitazione e gente inerme procurando morti e mutilazioni anche tra i civili, pur di mettere fine ad uno scandalo libertario che rischiava di dilagare in Italia ed in Europa. Tutto questo il dito dello “storico emerito”, un po’ rinsecchito nei suoi pregiudizi, ce lo indica come lecito con un “finalmente”.
Ebbene, sappiamo che quando un dito indica la luna, anche se è evocata con il libro “La luna di Fiume” scritto dall’ “emerito” Lucio Villari, sicuramente è sempre il caso di guardare meglio la luna piuttosto che il dito, magari nella sua piena luce. Fu infatti “la luce di Fiume” la risposta che dette d’Annunzio a Clemanceau, il quale si faceva beffe di Orlando e degli italiani che secondo lui volevano Fiume come se fosse la “luna”. Tale risposta del Vate vale tuttora, proprio nel plenilunio di quella “quinta stagione” che tuttora ci chiama ad essere partecipi del suo splendore.
“Dal fondo della poesia vengono tutte queste grazie a noi, dal fondo della poesia e della primavera: d’una primavera che sola qui s’apre, quinta stagione del mondo” (G. d’Annunzio).
(Pubblicato il 4 novembre 2019 © «Avanti! on line»)