di Michela Mercuri
Nel febbraio del 2011 l’onda lunga delle cosiddette rivolte arabe, partite come manifestazioni giovanili e di piazza in molti paesi delle regione mediterranea, si infrange anche sulle coste libiche. La nostra sponda sud, così come molti dei suoi vicini nordafricani e mediorientali, si apprestava, allora, a vivere uno dei più grossi cambiamenti delle sua storia recente. A ben guardare, però, fin dall’inizio nell’ex Jamahiriya le proteste hanno assunto una connotazione peculiare che poco aveva a che vedere con le proteste di piazza Tahrir in Egitto o di avenue Bourguiba in Tunisia. In Libia si trattava, per lo più, di rivolte di imprinting tribale e localistico che avevano il loro epicentro a Bengasi, la “capitale” delle Cirenaica, regione storicamente avversa allo strapotere del rais. Ben presto le sollevazioni hanno dato vita alla formazione di milizie e gruppi combattenti. Poco dopo, poi, nel marzo 2011, la rivolta si è trasformata in una vera e propria guerra con l’intervento della coalizione internazionale. Solo così le milizie raccolte sotto l’ombrello dei cosiddetti ribelli anti- regime sono riuscite a defenestrare il rais che per più di 42 anni aveva retto le sorti del paese. Le speranze allora erano molte. La nuova Libia “libera” si apprestava a vivere le sue prime elezioni democratiche del luglio 2102 e ad intraprendere quello che per molti osservatori sembrava essere un cammino di libertà e democrazia. Eppure qualcosa è andato storto. Negli ultimi 5 anni il paese ha virato sempre più verso la deriva di un failed State, un buco nero nella mappa degli Stati del Nord Africa, frammentato in una serie di centri di potere in lotta tra loro, dilaniato da una gravissima crisi economica e con un già debole sistema di legalità che si è via via sgretolato. Nelle falle del fragile sistema di sicurezza sono poi entrate le milizie del Califfato che hanno conquistato alcune città come Derna e Sirte, quest’ultima, ancora oggi, teatro di feroci scontri che hanno visto l’intervento militare americano a sostegno delle milizie di Misurata, fedeli al Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al Serraj.
Cosa è accaduto questi anni? E soprattutto di chi è la colpa? Pagine e pagine sono state scritte per tentare di capire le cause della deriva libica e molte spiegazioni sono state date al fallimento della nostra quarta sponda. Tra le tante possibili cause una andrebbe indubbiamente ricercata negli errori della politica estera dell’occidente e di un modello che, innanzi alle sfide che sono giunte dai rivolgimenti mediterranei, dalla Libia alla Siria al dimenticato Yemen, passando per l’Egitto, si è mostrato totalmente inadeguato, se non addirittura controproducente. Da questo punto di vista tutta la vicenda libica può essere considerata la cartina al tornasole delle incoerenze delle politiche internazionali, ad iniziare dai suoi arbori, fino ad arrivare agli sconvolgimenti recenti. Ripercorrerli potrebbe essere utile per capire gli errori del passato e forse, con un po’ di ottimismo, un monito per il futuro.
Marzo 2011. L’intervento “azzoppato”
E’ oramai abitudine piuttosto diffusa attribuire l’attuale caos libico all’intervento della coalizione internazionale a supporto degli insorti, intervento senza il quale probabilmente il rais sarebbe rimasto ancora per qualche tempo alla guida del paese. Senza cadere nella retorica della “nostalgia di un dittatore” o di un’età dell’oro, peraltro in un sistema autoritario e sanguinario come quello libico mai esistita, è indubbio che le falle di quell’azione abbiano contribuito a gettare i semi del disordine odierno. Gli errori sono stati molti, sia nell’atteggiamento degli attori protagonisti, sia nelle modalità con cui questi hanno attuato l’operazione. La missione della Nato in Libia, non è certo una novità, è stata voluta dal governo francese dell’allora premier Sarkozy che, pochi giorni dopo lo scoppio delle rivolte, chiese una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza per prendere adeguate misure nei confronti della repressione delle insurrezioni contro il regime di Muammar Gheddafi. Una solerzia riconducibile a motivazioni dettate da meri interessi nazionali piuttosto che da reale volontà di porre fine alla sanguinaria azione messa in atto dal rais. Le elezioni imminenti e la popolarità in drastico calo del Presidente, la necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe e la volontà di porre fine al “fastidioso” trattato di amicizia e cooperazione italo libico del 2008, sono solo alcune delle mire di grandeur che hanno spinto la Francia ad agire nello scacchiere libico. Da questi presupposti ha preso così vita l’operazione militare denominata Unified Protector che ha avuto inizio il 19 marzo 2011, una missione condotta sotto il comando della Nato, ma nata e legittimata in tutta fretta, quasi a voler assecondare l’insistenza e i desiderata francesi ed inglesi. In questa debole alleanza gli Stati Uniti, fedeli alla politica del disimpegno mediterraneo del leading from behind, pur manifestando qualche perplessità, hanno assecondato l’intervento, forse più per pigrizia che per reale convinzione salvo poi, a più di cinque anni di distanza, fare un tardivo mea culpa. Sarà proprio il Presidente americano Barak Obama, in un nota intervista rilasciata al The Atlantic lo scorso marzo, in riferimento alla scellerata azione di quelli che lui stesso descrive “opportunisti europei”, a definire l’intervento in Libia il più grosso errore della propria politica estera. Difficile cercare una maggiore coerenza nella scelta interventista dell’Italia. Eroico spirito dei fedeltà all’alleanza atlantica o, più pragmaticamente, presa di coscienza di essere stati messi davanti al fatto compiuto e dunque necessità di salire sul carro del (presunto) vincitore per partecipare alla nuova spartizione della fetta? Difficile dirlo, ma è un dato di fatto che l’Italia “pagò per condurre una guerra contro i propri interessi”.
Ma le incoerenze di quella che potremmo definire, con un po’ di sarcasmo, “coalizione dei coscritti”, non sono state solo nel ruolo degli attori protagonisti ma anche nelle modalità di gestione dell’azione che, di fatto, hanno favorito la frammentazione del paese. Nella fretta di intervenire, è possibile che gli attori internazionali abbiano dimenticato le più elementari regole di un’azione militare che, in primo luogo, dovrebbe avere una chiara strategia politica, capace di definire gli obiettivi finali della missione. Nel caso libico la missione, iniziata con l’obiettivo di proteggere la popolazione civile tramite la creazione di una no-fly zone, ha decisamente cambiato rotta e, sotto la pressione francese e inglese, si è presto tramutata in un’azione finalizzata ad un vero e proprio regime change per abbattere il regime. Detta in altri termini si è trattato di un intervento armato senza una visione politica. In secondo luogo, il rifornimento di armi alle varie sigle non meglio identificate di “ribelli”, da parte di alcune potenze della coalizione, più che favorire il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt), organo politico formato, appunto, per sostenere la transizione, ha rafforzato l’ala militare e tutte quelle milizie che, di fatto, lungi dal deporre le armi, hanno virato sempre più verso una politica muscolare, accaparrandosi porzioni di territorio che in parte ancora controllano.
L’assenza di un progetto politico chiaro per uno State building libico e la miope politica di supporto alle sconosciute milizie che via via si erano formate durante le rivolte, sono alcune delle cause del caos politico e di sicurezza che continua a dilaniare il paese.
Il mancato “Follow-up”
Se l’intervento della “coalizione zoppa” del 2011 non ha brillato per coerenza, non si può certo dire che negli anni a venire le politiche occidentali abbiano intrapreso una strada più lineare. “Mi posso criticare per avere avuto troppa fiducia nel fatto che gli europei, vista la vicinanza con la Libia, si sarebbero impegnati di più con il follow-up”. Con queste parole Obama, che pure aveva avallato l’intervento, a 5 anni di distanza, nella già ricordata intervista, descrive gli errori anglo- francesi in Libia. “Follow up”, un termine diplomatico per dire che quei paesi che avevano caldeggiato l’intervento militare hanno poi colpevolmente lasciato la Libia al proprio destino. Negli anni successivi alla caduta del rais i paesi della sponda nord, infatti, hanno guardato colpevolmente la Libia virare verso il suo fallimento. A voler essere buonisti ci si potrebbe limitare a dire che gli “intervisti della prima ora” hanno sottovalutato le insidie della transizione, considerando la democrazia “una cosa fatta” e sovrastimando la capacità dei libici di dotarsi di nuove istituzioni in un processo autonomo di State building.
Eppure a ben guardare anche un osservatore poco attento avrebbe compreso che sarebbe stato davvero arduo per la Libia vincere fin da subito la partita con la democrazia. Il rais per più di quarant’anni aveva fatto deliberatamente dello “scatolone di sabbia” una Jamahiriya senza istituzioni, senza partiti, senza elezioni e con il sistematico annichilimento di ogni forma di libertà e di dissenso politico. I libici hanno dunque ricevuto in eredità dall’orwelliano regime di Gheddafi una “scatola vuota”, una Libia priva di una chiara coscienza nazionale, divisa da un rinnovato revanscismo localistico, tribale e regionale, che il dittatore aveva gestito in maniera personalistica con un sistema di power sharing reso possibile dalla spartizione dei proventi petroliferi del “suo” rentier State. A ciò si aggiunga che le varie potenze internazionali, intervenute nel teatro libico, hanno acuito il caos armando gruppi di miliziani che il Consiglio Nazionale di Transizione prima e i vari governi che si sono succeduti alla guida del paese poi, non sono mai riusciti a disarmare. Detta in altri termini, ai player internazionali è sembrata sfuggire l’evidenza che armare gruppi locali per raggiungere un obiettivo a breve termine, avrebbe rischiato di avere come diretto corollario il caos interno, dato che formare combattenti non equivale certo a costruire un esercito.
Nello spazio lasciato libero dal crollo del regime, quindi, le tensioni si sono acuite in una mappa di poteri locali formati da tribù, città-Stato e milizie di vario genere che hanno frammentato il paese, con inevitabili drammatiche conseguenze per l’economia. Il prodotto interno lordo, che nel 2010 era pari a circa 75 miliardi di dollari, oggi è più che dimezzato, la produzione di greggio, che 6 anni fa si aggirava intorno al milione e mezzo di barili al giorno, è oggi ridotta a un quinto, mentre l’inflazione galoppa al 10% annuo. Nel frattempo nel paese si è fatta strada una vera e propria guerra civile, frutto dell’opposizione tra gruppi laici e soldati del vecchio regime contro le forze islamiste. Una contrapposizione che ha di fatto sdoppiato il paese nei due governi di Tripoli e Tobruk, il primo guidato dagli islamisti e il secondo dalle milizie laiche del generale Khalifa Haftar. Non stupisce come in questo marasma i confini siano diventati sempre più permeabili e capaci di attrarre costanti flussi di jihadisti ma anche disperati che dalle coste libiche si imbarcano per le quelle europee. Nel frattempo quegli stessi attori che tanto avevano voluto l’intervento sono rimasti a guardare. Utilizzando ancora uno sguardo buonista, si potrebbe in parte giustificare l’assenza di un piano per la Libia nei momenti concitati dell’intervento militare, ma è molto più difficile spiegare come sia stato possibile che la comunità internazionale si sia, poi, disinteressata alle sorti del paese.
L’azione tardiva e “in ordine sparso”
Solo dopo anni di silenzio, nel luglio del 2014, con l’irrompere della guerra civile, le coscienze internazionali si sono risvegliate dal torpore e la situazione libica è stata oggetto di un processo di mediazione da parte delle Nazioni Unite con l’obiettivo di dare vita ad un Governo unitario capace di adoperarsi per la pacificazione del paese. Un compito affatto semplice in un contesto socio-politico ed economico oramai logorato. Inizia così il bailamme delle trattative e degli accordi internazionali sotto l’egida dell’Onu che hanno dato vita, con l’accordo di Skhirat, del dicembre 2015, al Governo di accordo nazionale guidato da Fayez al Serraj che, nel marzo del 2016, riesce ad arrivare nella capitale seppure in un contesto di perdurante instabilità.
Nonostante l’insediamento del Gna, infatti, permane il bicefalismo nelle istituzioni libiche, con la camera dei rappresentanti di Tobruk, di fatto ostaggio delle milizie del generale Haftar, che non riconosce la soluzione unitaria.
Nonostante l’apparente impegno della comunità internazionale, però, è proprio in questa fase che emergono in maniera più evidente le incoerenze della politica occidentale. Le varie potenze, che via via hanno preso parte ai tavoli negoziali, una volta “sul terreno” non sembrano perseguire gli stessi obiettivi a tutto detrimento della stabilità della Libia. Un gioco al massacro – peri libici – in cui i player occidentali continuano a sostenere le diverse fazioni ancora in lotta per l’egemonia nel paese, facendo perno anche sui vari attori regionali, dall’Egitto alla Turchia, che a loro volta sostengono e finanziano i diversi gruppi presenti nel mosaico libico. E così, ad esempio, la Francia ha fin qui supportato l’ala separatista di Tobruk, contravvenendo di fatto alla linea di supporto al Gna ostentata nelle sedi internazionali. Si spiega così la presenza di forze speciali francesi, e probabilmente anche inglesi, nella base di Benina, nei pressi di Bengasi, a sostegno delle milizie del generale Haftar. Ma a ben guardare non sono solo i francesi ad anteporre l’interesse nazionale a quello libico. Anche gli americani che pure ora sostengono apertamente il Governo unitario, sembrano spinti più da motivazioni “personali” – sostenere Hillary Clinton o dare un monito a Mosca – piuttosto che da reale coinvolgimento nel progetto unitario. Anche l’Italia, che comunque ha mantenuto una posizione di coerente sostegno a Serraj, a ben guardare, lo ha fatto più per blindare i propri interessi energetici in Tripolitania che per una concreta volontà di supportare l’unità del paese.
Da quanto detto emerge come la Libia possa essere considerata la cartina al tornasole delle incoerenze delle politiche estere occidentali. Il termine plurale non è usato casualmente. In Libia, come in Siria e in molti altri paesi del quadrante mediterraneo, l’assenza di una coraggiosa ma indispensabile linea comune nelle politiche internazionali, non solo ha condotto al caos odierno ma rischia di far sprofondare molti paesi nel baratro. L’occidente sembra ciecamente non voler fare tesoro dei propri errori o, invece, ne è perfettamente cosciente ma è accecato dalla realpolitik che inevitabilmente lo porta a preferire la guerra per procura alla ricerca della stabilità. La Libia, ora che è in corso un intervento iniziato con i raid Usa e proseguito con la presenza sul terreno di truppe occidentali, tra cui quelle italiane, potrebbe forse essere l’ultima occasione per capire come evitare altri errori. Per farlo, però, non solo sarà necessario un piano capace di bypassare gli inutili interventi di corto respiro, ma soprattutto sarà indispensabile ridare vita ad una coscienza comune, per lo meno nelle politiche dell’Europa, per ora sempre più debole e frammentata.