di Claudia Covelli
Nel giorno dell’inaugurazione delle mostre torinesi e delle celebrazioni ufficiali del 17 marzo, i quotidiani hanno pubblicato un folto numero di interventi di storici noti nel panorama nazionale. Dividiamo i loro interventi in due post distinti, per non appesantire la lettura. Il primo gruppo di articoli che vi proponiamo verte attorno al tema del federalismo e della “questione meridionale”, argomento sul quale si è discusso a lungo in questi mesi. Ne hanno parlato Eugenio Di Rienzo su “Il Giornale”, Giuseppe Galasso e Mario Isnenghi su “Il Mattino” proprio il 17 marzo.
Iniziamo dall’articolo pubblicato da Eugenio Di Rienzo su “Il Giornale” che affronta in maniera più complessiva il nodo del federalismo e del suo legame con il Risorgimento: nell’articolo Tutto cominciò con una lite su Roma Di Rienzo ci riporta al 25 marzo 1861, quando Cavour, intervendo nel dibattito parlamentare a proposito dell’opportunità di insistere per strappare il controllo di Roma all’allora Stato Pontificio, sciolse la questione senza mezzi termini. Cita Di Rienzo, attento studioso dell’età moderna e autore di una recente e corposa biografia dedicata a Napoleone III, direttamente le parole di Cavour: «senza Roma, capitale d’Italia, l’Italia non si può costruire». Una posizione che, come sottolinea lo storico, suscitava diversi malcontenti, sia a livello internazionale che all’interno del parlamento stesso: dai cattolici europei fiduciosi nella tutela al Papato garantita da Napoleone III, al filosofo socialista e anticlericale Pierre-Joseph Proudhon, fino alle perplessità dello stesso Massimo d’Azeglio il quale, in un libello intitolato Questioni urgenti, andava sostenendo, come riporta Di Rienzo citando direttamente la fonte, un’incompatibilità tra la Roma papale, terreno di millenaria corruzione, e la nuova Italia liberale:
Per gli individui come per i governi esistono degli ambienti sani come quelli malati, gli uni che danno forza ed energia, gli altri che producono inerzia e debolezza e che quello di Roma impregnato dei miasmi di 2500 anni di violenze materiali, esercitate dagli imperatori e dai loro liberti, e poi dalle ipocrisie della Curia papale non pare il più adatto a infondere salute e vita a un’Italia giovane e nuova.
Una colossale operazione retorica dunque quella attuata da Cavour nell’ingaggiare una nuova lotta contro lo Stato Pontificio per la conquista di Roma? Un grande cappello retorico sotto cui nascondere il problema del crescente divario tra Nord e Sud che, come ribadisce Di Rienzo, rende quella italiana un’unificazione e non un’unità, e dietro al quale tradire quelle istanze federaliste e di autonomismo regionale, il cui maggiore teorico fu Carlo Cattaneo, la cui figura è tornata centrale in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Secondo Cattaneo, citato da Eugenio Di Rienzo, infatti:
[…] lo Stato unitario avrebbe finito per essere «autoritario e dispotico», perché l’accentramento era automaticamente nemico della libera iniziativa e della libertà. Al contrario, solo la pluralità dei centri politici, e dunque una coesione nazionale pluralistica e non indifferenziata, avrebbe fornito un terreno fecondo dove una società moderna poteva prosperare nella direzione del progresso civile.
Una prospettiva profondamente diversa, dunque, da quella proposta accentratrice avanzata da Mazzini – in chiave repubblicana- e da Cavour – in chiave monarchica-, benché entrambi, come ricorda Di Rienzo, avessero comunque previsto formule di autonomia locale e regionale soprattutto in materia amministrativa e non quella formula rigidamente centralizzatrice che fu poi adottata dallo Stato unitario.
Giuseppe Galasso sulle pagine de “Il Mattino” lo stesso 17 marzo fa una riflessione sulle implicazioni attuali di quella che lui definisce disunità, nell’articolo Ma la disunità ci allontana dall’Europa. Galasso sviluppa il suo discorso in 8 punti principali:
1. I “vantaggi” dell’Unità:
Centocinquant’anni dopo, va detto che nell’unificazione italiana hanno guadagnato tutti. Per rendersene conto bisogna essere strabici, come io amo ripetere: intendo dire che bisogna guardare sia al rapporto tra il Nord e il Sud, sia al rapporto tra il Sud di prima e quello di dopo il 1861. Tra le due Italie, come le definiva Giustino Fortunato, il divario rivelato quasi fin da subito dai meridionalisti è rimasto costante […] Ma tra il Sud del 2011 e quello del 1861 la distanza è enorme, specialmente se in confronto a quella tra il Sud del 1861 e il Sud di 150 anni prima.
2. L’Arretratezza del Sud la cui responsabilità non è attribuibile solo alle politiche del Nord:
L’intera cultura napoletana del Settecento e dell’Ottocento è una denuncia dell’arretratezza del Sud rispetto all’Europa e della necessità di porvi riparo. Da solo il Sud non ci riuscì fino al 1861. […] Inoltre, l’insistenza meridionale nell’attribuire solo e sempre ad altri i propri problemi non solo diventa, alla fine, patetica, ma scredita ulteriormente il Sud.
3. La classe dirigente meridionalista più arretrata rispetto a quella piemontese:
Nel Piemonte pre-unitario la classe dirigente […] si era già familiarizzata con la vita pubblica di un regime liberale moderno, ed era tutta stretta attorno al suo re e alle sue istituzioni. Al Sud non era così. […] Di un moderno regime di libertà non c’era, in verità, neppure l’ombra. Inoltre, una parte cospicua della classe dirigente del Sud era in esilio, molti proprio in Piemonte, e si trattava in molti casi di personaggi già integrati nella nascente classe dirigente italiana.
4. Debolezza dell’impero borbonico:
Durante tutto il Risorgimento si dimostrò che la debolezza del regime borbonico era superiore a quel che appariva e si pensava. Dunque, il crollo dello Stato in pochi mesi non fu dovuto solo a Garibaldi, ma anche e soprattutto alla sua interna, insicura, fragile consistenza […]
5. La pluralità del Risorgimento:
La grandezza del Risorgimento è stata di non essere l’opera di un unico demiurgo risolutore, ma un moto nazionale dalle molte voci e dalle molte teste.
6. Centralismo meridionale:
Nella discussione dei primi anni dell’unità tra federalisti, autonomisti e centralisti i partigiani più accesi del centralismo furono molto spesso i non piemontesi, specie quelli di origini meridionali […] Costoro, nel centralismo videro […] una opportunità per una nuova modernizzazione.
7. La “conta dei morti” e il fenomeno del brigantaggio:
Il numero delle vittime è diventata una specie di asta al rialzo. […] Il brigantaggio era un fenomeno antico che gli stessi Borbone avevano dovuto combattere. […] Che fosse in parte una guerra dei poveri è una considerazione cui si può consentire solo in pochi casi, e che fosse una guerra d’indipendenza non si può consentire affatto.
8. L’unità non ha alternative:
[…] Tutti sanno che l’unità tuttora non ha alternative. Fu difficilissimo farla. Disfarla appare ancora, e molto, più difficile.
Accanto all’intervento di Galasso all’interno dello stesso articolo de “Il Mattino” Ma la disunità ci allontana dall’Europa, troviamo l’intervento di Mario Isnenghi. Anche Isnenghi segue gli 8 punti indicati da Galasso, ne riportiamo solo i passaggi più interessanti. In primo luogo Isnenghi rifiuta la logica della contabilità tra vantaggi e svantaggi e richiama l’attenzione sul lavoro sulle fonti storiche: «[…]certe affermazioni o tesi, certe sparate numeriche indimostrate e indimostrabili, in verità non hanno nulla a che fare con la storia: evocano piuttosto degli atti di fede dai loro lettori». Lo storico concorda poi con Galasso nell’affermare che «una questione meridionale esisteva già prima dell’Unità. Le regioni dell’Italia meridionale avevano già grandissimi problemi di sviluppo economico». I due storici concordano anche sul fatto che il regno borbonico sia di fatto imploso e che «Garibaldi ha dato, in tal senso, lo scrollone finale, a un vecchio mobile che s’era già tarlato dall’interno». Isnenghi poi sottolinea l’aspetto volontaristico della missione garibaldina che raccolse consensi anche in meridione – «È vero che sono partiti in mille, ma strada facendo, in cinque mesi, sono diventati quasi cinquantamila»- e sulla percezione dell’espansione piemontese anche come “liberazione”: «Storicamente non si può negare che questo senso di liberazione ci sia stato». Anche sul carattere endemico del fenomeno del brigantaggio precedente all’unità nazionale concordano Mario Isnenghi e Giuseppe Galasso, pur non negando che «Da parte dello Stato italiano ci fu senz’altro una repressione di tipo coloniale: ed è certamente drammatico che la prima guerra dell’Italia appena unificata sia stata una guerra civile». Cosa, che fra l’altro, sottolinea efficacemente Isnenghi costituisce un elemento comune con la storia degli Stati Uniti, dei quali proprio quest’anno ricorrono i 150 anni dello scoppio della guerra di secessione. Isnenghi conclude ricordando come questo recupero – e stravolgimento – di fatti e personaggi del Risorgimento sia elemento da collocare negli ultimi vent’anni di storia nazionale, in cui istanze politiche secessioniste hanno tentato di monopolizzare la storia del passato a suffragio delle loro posizioni anti-unitarie. Per concludere prendiamo a prestito la battuta con cui Mario Isnenghi chiude l’articolo de “Il Mattino”: «Ma la “vera” Napoli rimane poi sempre quella di Francesco De Sanctis e non certo quella del Cardinale Ruffo». E noi ci permettiamo di aggiungere, quali studiosi di storia, anche quella di Benedetto Croce che tanto si spese per la riflessione sulla questione meridionale.
(Pubblicato il 21 marzo 2011 – © «BlogStoria»)