di Antonio Gnoli
Tra gli storici che ho avuto la fortuna di conoscere Giuseppe Galasso è dotato di una bonomia rara che sembra sfiorare una forma di felice rassegnazione. Ricordo il piglio militaresco di Rosario Romeo, la dilatazione delle parole, fin dentro la noia, di Renzo De Felice, le acrobazie mentali con cui Luciano Canfora passa dall’antico al contemporaneo, o quelle più sommesse di Paolo Spriano che tentò in tutti i modi di spingere il Pci oltre le colonne d’Ercole del sovietismo. Ma non ricordo nessun gesto, in questi grandi studiosi, di rasserenamento, nessun legame quieto tra l’oggetto del loro studio e le parole che lo accompagnavano. Come se ogni volta fosse il conflitto, e la durezza delle passioni a regolarne l’andamento. Galasso non si sottrae all’ovvia constatazione che la storia sia il frutto di processi complessi, spesso violenti, ma non per questo dimentica di sorridere, di guardare oltre la finestra dello studio, dove c’è un mondo di colori e forme al quale affacciarsi anche con il gusto di lasciarsi sorprendere.
Fuori dalla finestra, della stanza dove sediamo, c’è il mare di Napoli o meglio di Pozzuoli. E quella distesa d’acqua, così prossima alla casa, così uniforme nel grigio sotto il grigio del cielo di una mattina piovosa, mi fa pensare al passato. Dove tutto sembra immobile ma dove in realtà ogni cosa brulica, sussulta, ondeggia: « È chiaro che per uno storico il passato non è un gatto morto. Ma questa vitalità vale ancora fuori dalla storiografia e dai cultori della disciplina? C’è una consapevolezza della società civile di cosa sia il nostro passato? O forse, per dirla in modo più radicale: c’è ancora una società civile?».
Che risposta si è dato?
«Non mi ritengo un professionista della crisi, o del disagio esistenziale. Noto soltanto che la storiografia continua a produrre con i suoi riti, le sue ricerche, belle o brutte che siano. Ma è come un corpo separato dalla società che oggi non trova più un baricentro su cui esprimersi».
È una delle tante facce della crisi.
«Parole come “crisi”, “tramonto”, “declino” hanno da sempre attraversato l’Occidente. L’Europa dei secoli d’oro si espresse tra il XV e XIX secolo, poi cominciò a circolare l’espressione finis Europae. Paul Hazard parlò di crisi della coscienza europea; lo stesso Husserl riportò, sul piano filosofico, la crisi alle scienze europee; Oswald Spengler ebbe un successo travolgente con il suo Tramonto dell’Occidente. Una tendenza che, in questo nuovo secolo, invece di ridimensionarsi, è sembrata crescere e diffondersi ulteriormente».
Con quali conseguenze?
«Non mi soffermo sulle ricadute psicologiche, sociali, politiche. È cronaca quasi quotidiana. Forze sempre meno razionali minacciano il fondamento storico e logico di una Europa come l’abbiamo conosciuta ».
Quelle forze ci sono sempre state. Come pure i momenti terribili vissuti dall’Europa e dall’Italia in particolare.
«Per quanto riguarda il nostro paese, alla fine degli anni Quaranta si cominciò a uscire da una crisi ben peggiore di questa. Alle spalle c’era la guerra con gli effetti che essa aveva prodotto sulla vita delle persone. Mio padre — un artigiano che si occupava di specchi e di cristalli — vide il suo lavoro progressivamente sparire. Mia madre morì nel 1941 e fu lui a occuparsi dei tre figli, si risposò e io cominciai a lavorare molto presto».
Cosa faceva?
«Tutto, a Napoli si poteva fare di tutto. Mi impiegai come sguattero, facchino, magazziniere. Lavorai con i francesi e poi gli inglesi. E poi, nel tempo libero, leggevo. Qualunque cosa: giornali, libri, riviste specializzate. Quel poco che si affacciava su Napoli veniva da me intercettato e divorato».
Come era nata questa passione?
«Fu il fratello di mio padre a trasmettermela. Mi iscrisse a una biblioteca circolante. Fu così che lessi i primi romanzi di avventure ma anche i primi classici francesi e russi. Anche i giornali entrarono tra i miei interessi. Ricordo che nel 1939, all’età di dieci anni, mi appassionai alle prime avvisaglie belliche. Sentii un’ammirazione idiota per la Germania che aveva invaso la Polonia».
Cosa ammirava?
«La potenza di quell’esercito. Ero un giovanissimo balilla e, come molti miei coetanei, risucchiato in un nazionalismo feroce. La propaganda faceva il suo corso e noi adolescenti eravamo stracerti che l’Italia avrebbe trionfato insieme all’alleato tedesco. Quella illusione durò poco».
Quando si risvegliò?
«La guerra mostrò abbastanza rapidamente il suo lato frustrante per la popolazione e la convinzione che il nostro esercito era impreparato. Vincevamo solo se i tedeschi combattevano accanto a noi. Da un certo momento cominciammo a prendere delle vere mazzate, soprattutto dagli inglesi. Il primo ottobre del 1943 a Napoli arrivarono gli americani».
Che impressione le fecero?
«Sono convinto che in quel momento Napoli entrò nel XX secolo. L’impressione che ne ricavai vedendo gli americani, fu di un caos organizzato. Sfilavano jeep, camion, carri e ogni cosa nella calca della gente sembrava disordinata, improvvisata, senza un perché. Eppure, tutto finì col funzionare. Nel 1945 si tornò finalmente a vivere».
Aveva appena sedici anni.
«Ma era come se ne avessi avuti quaranta. Il tempo interiore, sotto la spinta degli eventi, cavalcava più velocemente del tempo cronologico. Mi sentivo più maturo. Avevo ripreso a lavorare. Nella frammentazione della vita produttiva, Napoli offriva cose di scarso rilievo: comparsa al San Carlo, oppure la claque per qualche evento operistico. Pensai anche di aiutare mio padre che aveva riaperto la sua bottega di vetraio. Nei pomeriggi mi capitava di dare anche qualche lezione privata. Non era un granché ma avevo sufficiente tempo per leggere. Fu allora che scoprii Benedetto Croce».
Una scoperta ma anche una fedeltà lunghissima a un pensiero che spesso è stato sbrigativamente liquidato.
«Croce è un pensatore spesso frainteso, si è detto, sbagliando, che il suo sistema rappresentasse la pacificazione del mondo».
È la medesima impressione che offre lei.
«In Croce c’è una fortissima tensione speculativa. Fu una delle espressioni migliori dello spirito europeo e testimone della crisi europea del suo tempo. Ma non si fece condizionare dalla crisi, non fu preda dello smarrimento e dell’angoscia esistenziale».
Beh, però bastava grattare la vernice della sua tranquillità per cogliere il pensatore drammatico.
«È vero e fu lui stesso a ricordarlo. Nel Contributo alla critica di me stesso parlò della sua angoscia giovanile. Che vinse, sì, ma non riuscì a eliminare. E io credo che questo senso drammatico e tormentato della vita risieda anche nel senso generale della sua filosofia».
«È questa incertezza che toglie la patina di ottimismo e conformismo con cui Croce è stato interpretato».
Soprattutto dai crociani.
«Non solo loro, anche se i cerchi magici sono sempre rovinosi per chi vi è al centro. Mi pare che lei alludesse anche a una certa somiglianza di carattere, quella bonomia con cui fu male interpretato Croce e che le sembra mi appartenga».
Dà questa impressione di olimpica distanza dalle cose.
«Non mi sento affatto olimpico. Anche se per tutta la vita ho cercato di rendere ragione della posizione degli altri. Di spiegarla prima a me stesso e poi a coloro che ne erano i portatori. È una grande forza ma anche una debolezza. Sono fatto così».
Perché una debolezza?
«Perché quando si discute, quando intellettualmente si dibatte, più della comprensività conta la forza dell’unilateralità. È chiaro che la comprensività allargata consente di tener conto di molte cose, ma indebolisce il punto di vista, lo attenua. Offre l’impressione di una scarsa convinzione in ciò che si vorrebbe difendere».
Non mi sembra un male, anzi, questa apertura alle altre prospettive.
«È un farmaco contro gli eccessi del dogmatismo, dai quali gli storici non sono indenni. E forse è questa la ragione per cui nell’ambito della storia mi sono occupato di tantissime cose: il medievale e il moderno; la storia del Mezzogiorno e di Napoli; la storia d’Italia e d’Europa. E poi all’interno di tutto questo ho cercato di gettare uno sguardo nelle storiografie contemporanee».
Con quali storici si è più sentito in sintonia?
« Dovrei accennare ai miei maestri, innanzitutto. Mi laureai con Ernesto Pontieri e nei due anni che ho passato all’istituto di studi storici, come borsista, ho conosciuto Federico Chabod e attraverso di lui altri storici come Ernesto Sestan e Arnaldo Momigliano. E poi altri maestri li ho trovati da me».
Che ricordo ha di Chabod?
«Aveva un’efficacia didattica straordinaria e trasmetteva il senso del valore del lavoro dello storico. Era di una estrema riservatezza. Difficile perciò avere un rapporto di parità colloquiale. Studiò a Berlino con Friedrich Meinecke, divenne amico di Fernand Braudel. Si conobbero alla fine degli anni Venti ed entrambi furono destinati a una carriera di grandi storici».
Su piani differenti.
«Certo, gli interessi di Braudel e della sua scuola — diresse dopo Lucien Febvre la rivista Annales, dandole ulteriore prestigio — si svilupparono verso una concezione della storia a più piani. Per lui la storia doveva aprirsi ad altre discipline. Fu un’esigenza giusta, almeno fino a quando, soprattutto i suoi allievi, non ne abusarono. Era un uomo diverso da Chabod. Tanto quest’ultimo poteva apparire freddo e intimidente, quanto l’altro era dotato di una forte carica affettiva e umana. Sono caratteri che nulla tolgono alla forza del loro modo di fare storia».
Il modo di Chabod qual era?
«Era convinto che lo studio della storia permettesse di fare cose importanti anche sul piano della coscienza civile. E che in fondo nella storia come nella vita sono le idee e i comportamenti morali a costituire il fondamento e la forza determinante della realtà umana e dei suoi svolgimenti».
Ricordava, nella cerchia di Chabod, Sestan e Momigliano.
«Fu lui mi pare a presentarmeli. Sestan si occupò soprattutto di Medioevo, fu un uomo di grande affabilità. Momigliano fu un maestro del mondo antico. Insegnò a Londra e a Chicago, dopo essere stato cacciato dall’Italia per le leggi razziali. A volte sembrava brusco nel porgere gli argomenti. Non ho avuto con lui dei veri scambi intellettuali ma una certa amicizia sì e posso aggiungere che la sua filologia è stata quanto di più rigoroso e meno soffocante io abbia mai conosciuto. Ma la persona alla quale mi sento più vicino e che morì ormai nel lontano 1987 è Rosario Romeo».
Fu un uomo molto passionale.
«Era un siciliano doc. Aveva un temperamento ardente. Le conversazioni con lui non erano mai accademiche. Nelle nostre frequentazioni napoletane ci avvicinammo a Francesco Compagna. Fu Nello Ajello a presentarmi quest’ultimo. E di tutto il gruppo che lavorava all’Istituto di Studi Storici, Compagna era politicamente il più vivace».
Fu Compagna a dare vita alla rivista “Nord e Sud”.
«Sì e ricordo perfettamente quando nel gennaio del 1954 apparve la rivista del Pci Cronache meridionali. Compagna ci guardò e disse: e noi democratici che facciamo? Come rispondiamo? Fu così che in pochi mesi — grazie all’aiuto di Ugo La Malfa e di Raffaele Mattioli — nacque Nord e Sud. E dall’inizio io vi collaborai insieme a Nello Ajello, Rosario Romeo e altri giovani. C’era uno spirito laico che sembrava rispondere alla necessità di svecchiare un paese».
Tra tutti gli autorevoli storici del dopoguerra Romeo fu quello che difese con maggior convinzione le ragioni laiche e liberali con cui leggere la storia e in anni di marxismo imperante fu un’eccezione, non trova?
«Si mosse, abbastanza solitario, fuori dalle egemonie culturali allora imperanti. Fuori dal cattolicesimo e dal marxismo. Il suo spessore di storico non si discute. Ma per ragioni generazionali fu consegnato al mondo del “prima”».
Cosa intende?
«Aprì gli occhi su un mondo che per ragioni anagrafiche e per la morte che sopraggiunse troppo presto non poteva prevedere se non in parte nei suoi grandi mutamenti storici. È stato uno dei maggiori storici italiani del nostro tempo. Ma il suo orizzonte, come il mio del resto, fu segnato dall’esser nato in un certo tempo storico. A volte mi chiedo se non sia stata un’immensa fortuna per Cavour morire subito dopo aver fatto l’unità d’Italia».
Fortuna?
«Esattamente, immagini a quali difficili problemi di governabilità sarebbe andato incontro. Cito, forse non a caso, la figura che maggiormente affascinò Romeo e sulla quale ha costruito non solo la biografia di un uomo ma di un intero paese».
Un paese dunque diventato oggi meno leggibile?
«Quelle che ho provato a raccontarle sono le vicende di un gruppo di persone che ha immaginato che la storia non potesse dissociarsi dalla vita civile. Le due cose oggi marciano su strade così diverse che è molto difficile che si possano incontrare. Lei si figura un comunista, un liberale, un cattolico che non avessero un’idea della storia d’Italia? Proprio questo è venuto meno. La storia sta oggi in un angolo e altri sono i protagonisti. Non dico che sia un male, dico che siamo solo dei sopravvissuti».
(Pubblicato il 26 marzo 2017 – © «la Repubblica»)