di Eugenio Di Rienzo
Ogni grande protagonista della storia dovrebbe pensare, per tempo, a costruirsi una “buona stampa”, in grado di trasmettere ai posteri il ricordo delle sue gesta in modo elogiativo o comunque non sfavorevole. Questo fece il rozzo Vespasiano, il quale ancora prima della sua ascesa a Imperatore, carezzò e protesse lo storico ebreo Flavio Giuseppe, che pure disprezzava sentitamente, in modo da permettergli di eternare la sua vittoria e quella del figlio Tito nella guerra giudaica che portò alla distruzione di Gerusalemme.
Questo non fece, invece, Nerone, che inimicandosi il Senato romano e con esso i maggiori intellettuali dell’epoca, passò alla storia come un tiranno sanguinario e non come l’imperatore democratico, che in fondo fu, propenso ad alleviare le condizioni delle classi popolari con un’accorta politica fiscale. E questo non riuscì neppure a Giuliano l’Apostata, cui pure non mancarono apologeti, prima e dopo la sua morte, che battezzato cristiano, avendo ripudiato quella religione, che Costantino aveva elevato a confessione di Stato, per ritornare al paganesimo, fu annoverato, insieme a Nerone, Domiziano, Diocleziano tra i più feroci persecutori del cristianesimo, sebbene la sua azione in questo campo, fosse stata molto più blanda di quella della maggioranza dei suoi predecessori.
Di questa leggenda nera fa ora giustizia la bella e avvincente biografia di Arnaldo Marcone, pubblicata dalla Salerno Editrice (Giuliano. L’imperatore filosofo e sacerdote che tentò la restaurazione del paganesimo, pp. 372, € 25,00), dalla quale apprendiamo che Giuliano si attenne sempre, anche nei confronti dei seguaci del Galileo, a una linea orientata, negli interventi sanzionatori, alla volontà di «punire senza eccesso, brutalità, durezza e asprezza», evitando di infierire, come già avevano ammonito Traiano e Adriano, contro i sospetti di cui la colpevolezza non era provata. La mitezza, e non una giustizia «rigorosa e inflessibile», dovevano ispirare l’azione del principe. La punizione doveva sempre conservare un valore educativo senza mai trasformarsi in indiscriminata repressione. La condanna a morte doveva essere usata solo in casi eccezionali, perché privava il colpevole del diritto di ravvedersi dei suoi errori, di rientrare nella comunità civile e di contribuire alla grandezza dell’Impero.
Inoltre, voglio aggiungere che il ritorno al paganesimo propugnato da Giuliano non fu concepito, come accadde con Antonino Pio, alla stregua di un semplice ritorno nazionalistico alla «religione dei padri». Il neo-paganesimo di Giuliano, intessuto di culti orientali, depurati dalle più rozze incrostazioni, e di platonismo, fu, infatti, ideato anche come uno strumento politico funzionale ad espandere, spiritualmente e territorialmente, l’egemonia romana alla Persia, all’Asia centrale, all’India. Giuliano, infatti, fu soprattutto un grande sognatore politico che cercò di realizzare il progetto “eurasiatico” di Alessandro Magno e degli Imperatori seleucidi. Un progetto non estraneo anche a Nerone, che avrebbe dovuto avverarsi nell’edificazione di un Impero multietnico, fondato sul primato della cultura ellenistica, in grado di estendersi dal Mediterraneo, all’Atlantico all’Oceano indiano.
Alla base di questo grande disegno c’era naturalmente, il culto di Alessandro che appare come protagonista, addirittura in posizione quasi paritetica a Giulio Cesare, insieme agli altri Imperatori romani (da Cesare appunto a Costantino) nell’opera più famosa di Giuliano: I Cesari. Del figlio di Filippo II di Macedonia e della regina Olimpiade Giuliano sostenne, infatti, di essere la reincarnazione e aggiunse di voler, come lui, «arrivare a bagnarsi nelle acque dell’Indo». Da questo punto di vista, la sfortunata spedizione militare contro l’Impero persiano dei Sasanidi intrapresa da Giuliano, dove egli trovò la morte nel giugno del 363, appare non come una semplice guerra di conquista ma come il tentativo di sfondare la paratia che impediva di fare della difficoltosa carovaniera che segnava le tappe della «via della seta» una ben lastricata strada, edificata grazie alla maestria dell’ingegneria romana. Una strada in grado di favorire i commerci e gli scambi, certamente, ma anche e soprattutto di armonizzare culture, religioni, espressioni artistiche diversissime, sì, ma che pure erano nate e si erano sviluppate in unico, sterminato, indiviso, blocco continentale.
(Pubblicato il 28 marzo 2019 © «il Giornale» – Cultura)