di Eugenio Di Rienzo
Sulla figura di Galeazzo Ciano, leggende sono fiorite a non finire, soprattutto per l’uso che la pubblicistica ha fatto del suo famoso Diario, la cronaca quasi giornaliera, da lui redatta dal 9 giugno 1936 al 6 febbraio 1943. E proprio il Diario è uno dei cardini su cui ruota la monumentale indagine che, sotto il titolo Ciano. Vita pubblica e privata del «genero di regime» nell’Italia del ventennio nero, Salerno Editore, € 34,00, pp. 696), Eugenio Di Rienzo, professore di Storia moderna all’Università di Roma “La Sapienza”, ha dedicato alla vita del figlio del gerarca fascista Costanzo (l’enorme ricchezza del quale fu di dubbie origini) sino a che Galeazzo, sotto le fortissime pressioni di Grandi e Bottai, non si trasformerà “in un Bruto in sedicesimo”, decidendo, infine, di affondare il pugnale nel costato del “piccolo Cesare romagnolo”; evento cui segue “l’Iliade funesta” degli ultimi ottantacinque giorni di vita del marito di Edda Mussolini.
Attraverso un vastissimo apparato di fonti, sovente inedite, Di Rienzo mostra come il Diario, sia un documento “inautentico e contraffatto”, intenzionalmente redatto all’unico scopo di scindere le proprie responsabilità da quelle del Duce nella conduzione della politica estera italiana. Scorrono passo dopo passo le tappe della vita, anche privata, di Ciano in una vicenda pubblica “dove le grandi decisioni della politica non sono mai prese alla luce del sole, ma al fioco lume dei focolari di nuclei domestici nei quali forte aleggia un odore di chiuso impastato del sentore graveolente di rivalità e di beghe di famiglia”.
Prof. Di Rienzo, perché sostiene che fu la redazione del Diario, accanto a tante operazioni mal riuscite, il vero, se non davvero l’unico, capolavoro politico di Ciano?
Le ragioni sono molte. La principale è di aver accreditato la versione di una sua ferma ostilità alla Germania in contrapposizione al suocero. In realtà Ciano non fu mai germanofobo, prima dello smembramento della Cecoslovacchia, della firma del Patto Molotov-Ribbentrop e dell’invasione della Polonia. E quando lo divenne, lo fu alla stessa stregua di Mussolini, preoccupato che l’espansionismo del Reich potesse distruggere le nostre posizioni di egemonia nei Balcani, riducendolo al ruolo di “Gauleiter per l’Italia”. Ricordiamo che Ciano dovette la sua ascesa al Ministero degli Esteri proprio alla sua politica germanofila e che, sebbene nel Diario egli affermi di essere stato costretto da Mussolini a siglare il Patto d’Acciaio furono proprio le sue assicurazioni che i Tedeschi non erano intenzionati a dichiarare guerra prima di 3-4 anni a spingere il Duce a legarsi, mani e piedi, alla politica estera di Berlino.
Lei definisce Ciano “il massimo attore dell’irreggimentazione dell’informazione italiana”. Su quali versanti operò?
Io ho definito Ciano il “Goebbels Italiano”, con riferimento al ministro della propaganda del Reich, che dopo il 1933, creò un modello totalitario di controllo di ogni attività culturale (dalla letteratura, al teatro, al cinema, alle emissioni radiofoniche, alla stampa, alle grandi manifestazioni di massa, persino al turismo e alla musica popolare). Ciano importò questo modello in Italia prima con l’istituzione del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda poi trasformatosi nell’omonimo dicastero, infine ribattezzato Ministero della cultura popolare.
Perché Ciano, a capo del Super Ministero degli Esteri, era per Duce “l’uomo giusto al momento giusto”?
L’assunzione di Ciano a Palazzo Chigi faceva parte della strategia comunicativa di Mussolini. Al Duce era riservato il ruolo di mostrare il “viso dell’armi”, nelle sue esternazioni pubbliche, rivolte a Francia, Germania, Regno Unito e Paesi neutrali. A Ciano era destinato quello di ridimensionare quelle prese di posizioni e di rappresentare l’anima dialogante della politica estera fascista.
Cosa prova che non ci fu mai una contrapposizione frontale tra Galeazzo e Mussolini sul problema della partecipazione italiana al conflitto?
In realtà Mussolini forse ancora più di Ciano era contrario al nostro ingresso in guerra, essendo ben conscio del logoramento del nostro apparato militare, dissanguato dall’emorragia di risorse provocata dalla Guerra d’Etiopia, dal nostro massiccio intervento nel conflitto civile spagnolo, e male assistito dalle deficienze strutturali dell’industria italiana. Il problema era che, come nel 1915, l’Italia non poteva restare neutrale. Se avesse deciso di non imbracciare le armi, il nostro Paese avrebbe perso il suo stato di Grande Potenza con la conseguenza di dover rinunciare alle rivendicazioni coloniali e mediterranee verso Francia e Inghilterra e di essere esposta a una rappresaglia tedesca. L’unica soluzione era di giocare di sponda tra i due contendenti. Ciano avrebbe dovuto mostrarsi aperto a un compromesso con le Potenze occidentali, facendo intravedere persino la possibilità di un cambiamento di fronte dell’Italia. Il Duce, invece, avrebbe tenuto fermo sull’alleanza col Reich, con la speranza che il fallimento dell’offensiva germanica spingesse i contendenti ad aprire un negoziato, nel quale il governo di Roma avrebbe assunto il ruolo mediatore. Fu quello un gioco delle parti, che il mio volume descrive minuziosamente, e che terminò solo dopo lo sfaldamento del fronte francese sotto i colpi di maglio delle armate hitleriane.
Cosa indusse Mussolini, a tentare a lungo di salvare la vita del genero, urtandosi contro moglie, amante e il figlio Vittorio?
Non fu certo pietas familiare. Fu puro calcolo politico. Mussolini aveva compreso che la richiesta di punire Ciano con la legge del sangue proveniente dalle fila del neo-fascismo repubblichino conteneva un’implicita critica alla sua decennale indulgenza per il corrotto “fascismo in doppiopetto” di cui il genero era il massimo rappresentante. Inoltre l’ordine di far fuori Ciano gli era stato impartito da Hitler subito dopo la sua liberazione dal Gran Sasso, e cedere a quel diktat equivaleva a mostrare all’opinione pubblica italiana e a quella internazionale che l’autonomia del Duce di Salò nei confronti del “brutale alleato” si era ridotta a zero.
Dell’ “Iliade funesta” degli ultimi di vita di Galeazzo, cosa l’ha maggiormente impressionata?
In quel periodo, esclusi i tentativi di Edda di salvare la vita del consorte consegnando il Diario all’intelligence nazista, continuò il totale isolamento di Ciano che dopo il 25 luglio fu abbandonato da tutti gli altri attori della deposizione del Duce. Persino il Vaticano chiuse le porte in faccia alla famiglia Ciano, rifiutando di accoglierla, nonostante il rapporto privilegiato che aveva legato il sostituto della Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, all’ultimo Ministro degli Esteri dell’Italia fascista.
(Pubblicato il 30 dicembre 2018 – © «Giornale di Brescia»)