di Ottavio Ragone
Demone o santo, arruffapopolo o rivoluzionario, straccione sanguinario o martire romantico, icona di Napoli nel bene e – più spesso – nel male. Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello ha vissuto e vivrà centinaia di vite dopo la sua, spezzata a soli 27 anni il 16 luglio del 1647. Scannato, insozzato e reso simile a un dio nei racconti dei contemporanei per poi tornare di colpo nella polvere, il pescivendolo della celebre rivolta antispagnola si è trasfigurato nei secoli nell’arte, nel teatro e nella letteratura, fino alla attuale degenerazione di un mito. Masaniello, oggi, è l’ombra afferrata e scagliata da una parte o dall’altra del discorso, un espediente retorico, un’immagine comoda e di largo consumo nella ridotta contemporanea del “masaniellismo”, uno degli “ismi” nazionali in voga nel linguaggio politico e giornalistico quando si vuole imbrigliare un personaggio nei tratti tipici della “napoletanità” deteriore.
Questo processo allontana dalla corretta interpretazione dell’uomo. Secondo Aurelio Musi, uno dei massimi esperti contemporanei di Masaniello, autore del saggio omonimo appena uscito per l’editore Rubbettino, la sua funzione storica fu questa: interpretando la rabbia dei ceti colpiti dalla pressione fiscale e dall’arroganza degli aristocratici, Masaniello seppe unire la plebe povera e disorganizzata e il popolo delle arti e delle corporazioni nella capitale del Vicereame spagnolo, realizzando per la prima volta l’unità del popolo napoletano, pur nel limitato arco dei soli dieci giorni che incendiarono la città. Dunque Masaniello non fu soltanto, come pure ha voluto la tradizione storiografica del primo ‘900, il braccio di una mente superiore, il mero esecutore del progetto politico di Giulio Genoino, il giurista mentore e consigliere del pescivendolo durante la rivolta popolare del 1647. Rappresentò piuttosto una personalità “fuori media” per citare Walter Benjamin, scissa tra ragione e follia, collera e malinconia secondo i canoni del dramma barocco. Ma non certo un “hombre loco desatinado”, un “pazzo scatenato” come scrissero i ministri del re di Spagna.
Decapitato, gettato in una fogna e reso cibo per cani, poi avvolto pietosamente in un lenzuolo dopo il rito collettivo di degradazione, Tommaso Aniello da santo venerato dal popolo tornò diavolo durante la terribile peste del 1656. Tra rappresentazione storica e mitica, Masaniello nei secoli è stato Cristo e Anticristo, idolo della libertà e tribuno dei lazzari. La sua figura, scrive Musi, si è allontanata sempre più dalla funzione storicamente determinata. Per successivi slittamenti semantici è diventato lo stereotipo del “napoletano-tipo”, fino all’uso politico del “masaniellismo” in una accezione puramente negativa, da “capopopolo napoletano”. Achille Lauro ne fu la prima personificazione, poi tanti altri, da Paolo Cirino Pomicino all’attuale sindaco Luigi de Magistris. C’è il Masaniello di Eduardo e quello di Pino Daniele nella celebre canzone Je so’ pazzo, rappresentante di minoranze escluse, espressione di un desiderio insoddisfatto di libertà. E c’è il “masaniellismo” che sconfina nel populismo e nel neoborbonismo. Insomma un mito degradato, il «fertilizzante di un uso politico della storia». Alla fine, il simbolo dell’eterno ritorno della vicenda napoletana, l’emblema di un destino quasi ineluttabile. La personificazione della “ammuina” che non porta a niente e rende Napoli immobile, uguale a sé stessa, Incapace di un vero riscatto oltre il fragore delle parole.
(Pubblicato il 29 luglio 2019 © «la Repubblica»)