di Giuseppe Galasso
Pessimo, per alcuni, è lo stato di servizio degli storici italiani. Prima di tutto, scrivono in italiano, non in inglese. Tutt’al più, danno in inglese un abstract di quel che scrivono: patetico tentativo di sopperire alla carente anglofonia. E come scrivono, poi, gli storici italiani! Una prosa accademica, con periodi di una lunghezza opprimente, pieni di incisi e di subordinate, fra cui – dicono – si perde il lettore e si sfilacciano le idee. Abbondanza di congiuntivi, ossia di un modo verbale bellamente ignorato in altre lingue, e anche nell’italiano parlato e in molti scrittori italiani. Capacità narrativa assai scarsa, per cui il racconto si risolve in esposizione e discussioni di problemi, che disorientano il lettore che non abbia le necessarie informazioni al riguardo e mettono fuori strada gli studiosi più giovani, attraendoli in direzioni estranee a quelle della storiografia contemporanea. Per alcuni, gli storici italiani fanno solo, o quasi, la storia della storiografia dei problemi che studiano; e, per di più, studiano poco o nulla la storia degli altri Paesi.
Si spiegherebbe, così, che gli storici italiani siano poco tradotti e poco citati all’estero. Essi sono, in realtà, chiusi nelle loro storie regionali e in quella nazionale. Continuano a coltivare vecchie problematiche della loro tradizione, e si rifanno ancora a esponenti di tale tradizione, di cui all’estero, se pure li si conosce, si fa poco conto. Sono poi sempre partigiani di determinate scuole, ideologie, tendenze politiche o confessionali, nonché legati ad appartenenze a vecchi reami o principati accademici, notabilari, clientelari, nepotistici, e simili. Si spiega, così, anche la scarsa rappresentanza italiana negli organismi storici internazionali. Senza parlare, poi, della «storiografia ufficiale» dominante nelle storie italiane, per cui si censurano certe cose e se ne esaltano altre, secondo il mandato di ignoti e inconoscibili mandanti. Un ritratto impietoso, di cui abbiamo solo forzato un po’ le tinte per renderle più evidenti. È anche veritiero? Ebbene, semplicemente, no. A cominciare dal punto del non sapere scrivere. Montanelli ne fece un capo di accusa sempre ripetuto. Ai suoi tempi Adolfo Omodeo deprecava la «storiografia dei giornalisti». Era un giudizio da lui in qualche caso male applicato, ma non era infondato. Ora il modello, almeno espressivo, se non pure quello storico, pare proprio questo. E quanto all’inglese, il problema è ben lontano dal riguardare solo gli storici, e ha cause che esigono ben altre riflessioni. Si pensi all’annuncio che il Politecnico di Milano dal 2013 fornirà, nel biennio finale e nei dottorati, insegnamenti solo in inglese, bandendo l’italiano come lingua dell’istruzione superiore. E ciò sembrerebbe approvato e lodato dal ministro. Quanto alle scarse traduzioni all’estero, anche ciò dipende da ragioni che non riguardano la qualità storiografica degli studi italiani. Non è, però, di certo, il caso di contestare punto per punto (e non sarebbe difficile) l’atto di accusa agli storici italiani.
Sarebbe da sciocchi pensare che sui nostri studi storici non vi sia nulla da dire e che tutto vada per il meglio. È preferibile, perciò, riconoscere i motivi di fondatezza presenti in quell’atto di accusa per una più approfondita riflessione su problemi reali dei nostri studi storici, anche se si dovrebbe pure riconoscere che il livello medio dell’ attuale storiografia italiana è di una maturità superiore rispetto ad altri periodi e tale da non sfigurare affatto nei confronti internazionali. Per concludere solo due altre osservazioni. La prima è che dei problemi reali di travaglio storiografico e filologico, organizzativo e informativo della storiografia italiana buona parte dei nostri storici si rende ben conto. Questi problemi non riguardano, infatti, solo le eventuali carenze di questa o quella storiografia. Sono un solo, grande problema, di forte spessore anche teorico, che tocca ormai lo statuto della storicità e della storiografia nel quadro del sapere contemporaneo. La seconda è che si ha sempre l’aria, deprecando la storiografia italiana, di avere in mente chissà quale superiore modello: l’altro ieri il tedesco, ieri il francese, oggi l’anglofono, domani chissà. In realtà, in questa materia più forse che in altre, non vi sono modelli nazionali da esaltare o deprecare. C’è da fare solo un arduo lavoro di riflessione teorica e di scavo filologico, che si presta poco a prediche e proclami.
(Pubblicato il 26 maggio 2012 – © «Corriere della Sera»)