di Aurelio Musi
Secondo Eugenio Di Rienzo, autore del volume D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume (Rubbettino), il condottiero della marcia di Ronchi non fu l’«inventore del fascismo» né il promotore, con la promulgazione della Carta del Carnaro, di un modello politico libertario, progressivo, tendenzialmente anticapitalistico, quasi boscevizzante, incompatibile sia con il regime liberale, socialmente conservatore, sia con quello partorito dalle «leggi fascistissime», emanate tra 1925 e 1926, poi perfezionato durante l’arco temporale del “Ventennio nero”.
Di Rienzo insiste, piuttosto, sulla «impoliticità» dannunziana, nel senso che Thomas Mann conferì a questa parola: di «nausea per la politica», per dirla con Benedetto Croce, comune a molti altri intellettualio della sua generazione. Proprio da questo disgusto zampillava «la volontà di D’Annunzio di dar vita non a un partito ma a un movimento politicamente ereticale, dove egli non avrebbe dovuto rivestire il ruolo di capo politico ma di “Vate”, di “Guida”, di profeta e di Messia, che solo la discesa nel più vasto agone della politica internazionale, come Malaparte perfettamente comprese in un passo della Tecnica del colpo di Stato, poteva assicurargli».
Come scrive Di Rienzo, è proprio dalla volontà di veder realizzato questo obiettivo «che nasce il “D’Annunzio diplomatico”, e con lui il progetto di quella “Lega dei popoli oppressi”, concepita come “Anti-Società delle Nazioni”, immediatamente rubricata nei rapporti dell’Ammiragliato inglese come «uno dei più pericolosi movimenti rivoluzionari attivi fuori e dentro i confini dell’Impero britannico». Quella coalizione doveva estendersi, infatti, dall’«indomabile Sinn Féin d’Irlanda, ai Turchi, agli Egiziani, agli Indiani, ai Cinesi, alle masse mussulmane, alla nuova Russia di Lenin, all’Austria tedesca, all’Ungheria, alla Bulgaria, ai Fiamminghi, ai Catalani, ai «negri degli Stati Uniti», alle «Repubbliche latine d’America» e a «tutte le nazionalità balcaniche che ora gemono e languono sotto il bastone del brutale serbo e che anelano ardentemente a riconquistare la propria indipendenza».
Si Trattava di una «vera Santa Alleanza», opposta nei fini a quella sancita nel settembre 1815, come l’avrebbe definita uno dei maggiori collaboratori fiumani di D’Annunzio, Léon Kochnitzky, dalla quale facendo capo a Fiume, doveva partire la grande insurrezione contro il nuovo ordine mondiale, dove avevano trionfato le «Nazioni usurpatrici e accumulatrici d’ogni ricchezza, le razze da preda, la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace».
Per portare a termine quest’opera immane, contraddicendo il suo grido di battaglia «Ardisco non ordisco!», quel diplomatico, senza marsina e senza feluca, si rassegnò, però, a «ordire». e lo fece, continua Di Rienzo, in stretta continuità con la «diplomazia di movimento» adottata da Cavour: prima sperimentata nei Balcani, poi attuata, per usare le parole del futuro primo ministro dell’Italia unita, «nella guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II, per modo che resti sempre al governo del Re, se questa fallisse, qualche appiglio per uscire d’inciampo».
D’altra parte l’impresa di Fiume divenne un modello. Quella stessa strategia corsara, pe rraggiungere gli obiettivi territoriali che non si erano potuti ottenere al tavolo della Conferenza della pace di Parigi, fu utilizzata dall’Austria, dalla Jugoslavia, dalla Cecoslovacchia. E dalla Polonia, nel Baltico, quando, nella seconda settimana dell’ottobre 1920, il Maresciallo Józef Piłsudski ordinò a una intera divisione di fanteria di ammutinarsi, per prendere possesso della città di Vilnius evitando il palese coinvolgimento del governo di Varsavia. A dimostrazione, come Di Rienzo sostiene, che «l’impresa di Fiume ormai aveva fatto scuola».
(Pubblicato il 31 ottobre 2022 © «la Repubblica» )