di Marco Trotta
Gli studi storici dedicati a Gabriele D’Annunzio, il celebre scrittore e uomo d’azione nato a Pescara nel 1863, si arricchiscono ora di una nuova e ponderosa pubblicazione dal titolo D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume edita da Rubbettino (2022).
Si tratta di un importante studio di oltre novecento pagine, corredato di un fittissimo apparato di note, nel quale l’autore, Eugenio Di Rienzo, professore onorario di Storia moderna nell’Università di Roma La Sapienza, focalizza l’attenzione su emblematiche vicende di una fase cruciale della storia d’Italia, che nel primo dopoguerra videro il diretto coinvolgimento del poeta immaginifico nei fatti che ebbero quale epilogo l’occupazione di Fiume il 19 settembre 1919 e la proclamazione della Reggenza del Carnaro il 12 agosto 1920: ambedue gli eventi avrebbero dovuto assicurare all’Italia liberale, per mano militare, l’annessione di Fiume, città adriatica contesa dal neonato Regno jugoslavo di Serbia, Croazia e Slovenia dopo la polverizzazione dell’Impero austro-ungarico in seguito all’esito bellico.
Con la conferenza di Versailles (1919), che aveva concluso la Grande Guerra, il governo italiano, nonostante figurasse tra le nazioni vincitrici del conflitto, al tavolo della pace non ottenne quanto promesso secondo il patto di Londra, sottoscritto nel 1915 con le potenze della Triplice Intesa contro gli Imperi Centrali: le terre del confine orientale, cioè, che avevano conservato una certa identità italiana, tra cui la Dalmazia e pure Fiume, sebbene quest’ultima non fosse contemplata nel patto. E invece proprio la città quarnarina divenne l’epicentro della delicata e complessa questione adriatica.
Nel libro l’autore sgombra il campo da «due vessate interpretazioni», che danno dell’impresa dannunziana di Fiume un’immagine fuorviante: l’una che vede nell’intemerata azione di D’Annunzio la premessa nazionalista all’avvento del fascismo; l’altra che è volta ad esaltare la natura democratica e «socialisteggiante» dell’acceso volontarismo del patriota italiano, che servì a puntellare il programma della Carta del Carnaro, simbolo reclamizzato di un moderno modello socialmente avanzato. Avvalendosi di una mole considerevole di fonti archivistiche di prima mano, depositate nell’Archivio Centrale dello Stato, nell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, nell’Archivio del Vittoriale degli Italiani e presso il National Archives di Londra, Di Rienzo getta così nuova luce sulla vicenda fiumana, dimostrando come D’Annunzio, il «Duca del Quarnaro», non risulti affatto l’artefice assoluto della «penultima ventura», ma l’attore agguerrito della «bella impresa» e soprattutto il perno diplomatico di una regia esterna dell’operazione capace di riunire apparati civili e militari dello Stato italiano, alti rappresentanti della monarchia sabauda (lo stesso re Vittorio Emanuele III di Savoia ed Emanuele Filiberto, Duca d’Aosta), figure autorevolissime della politica nazionale, istituzioni diplomatiche, poteri finanziari, elementi della Massoneria. Nel tentativo di contrastare le ostilità internazionali della conquista di Fiume, che successivamente, il 12 novembre 1920, il trattato di Rapallo rese “città libera”, costringendo l’Italia, nuovamente umiliata, a rinunciare ai territori dalmati rivendicati dopo la guerra, emergeva infatti, in chiaroscuro, la volontà di risolvere il problema fiumano con lo sgretolamento della Jugoslavia, rendendo espliciti i veri motivi dell’occupazione: rovesciare, cioè, le determinazioni di Versailles e proseguire la «guerra dopo la guerra» attraverso la formazione di una «Lega dei popoli oppressi», in grado non solo di ricomprendere insieme all’Italia, vittima della “vittoria mutilata”, il blocco dei “vinti” della Prima guerra mondiale e la Russia comunista, ma anche di porre un argine alla tirannia delle potenze dell’imperialismo occidentale.
Uno scenario che va senza dubbio a smentire la funzione politica esercitata dal Vate sia nella elaborazione che nella esecuzione del progetto del Carnaro, anche perché – come osserva l’autore – il condottiero italiano fu, piuttosto, esemplare espressione di quella «impoliticità» non affatto rara nella turbolenta stagione europea uscita malconcia dalle macerie del conflitto, come dimostrò Thomas Mann, magistrale autore delle Considerazioni di un impolitico, opera pubblicata dal saggista tedesco, quasi coevo del poeta, nel 1918. Il che, tra la fine del XIX secolo e il primo decennio del Novecento, costituì un tratto tipico di quanti, segnatamente nazionalisti, accusarono in un’epoca fosca e frangente il rigetto della vita politico-parlamentare, dei suoi riti stucchevoli (i «ludi verbali dei deputati») e dei suoi compromessi di bassissimo profilo.
D’Annunzio – come sostiene in definitiva Di Rienzo – non fu un politico inadeguato, bensì dunque un “impolitico” senza partito, assai più capace di proporsi alla guida di un «movimento politicamente ereticale», magari da assimilare all’esperienza dei “Fasci di combattimento” organizzati a Milano dall’ex socialista Benito Mussolini, suo amico/antagonista, nel 1919.
(Pubblicato il 16 giugno 2023 © «il Centro»)