di Fabio Grassi
Mentre leggevo il poderoso libro di Eugenio Di Rienzo, D’Annunzio Diplomatico e l’impresa di Fiume, edito da Rubbettino Editore sempre più spesso, più ancora che altre opere di storia, mi venivano in mente “Così è se vi pare” di Pirandello e “Rashomon” di Kurosawa. In questa poderosa, appassionata e appassionante disamina, almeno per come l’ho percepita, Di Rienzo non vuole darci la verità ma le tante coesistenti e contraddittorie verità dell’impresa di Fiume. Tanto che molto spesso, con audace e direi beffarda scelta stilistica, nell’introdurre e commentare la citazione di una testimonianza dell’epoca, sembra sposare il punto di vista, la valutazione della personalità autrice del documento citato, punto di vista o valutazione che sarà smontato o messo in discussione qualche decina di pagine dopo.
Non per questo l’autore si astiene dal trarre ed esporre le sue conclusive valutazioni su vicende e persone, però lo fa calandosi pienamente nel flusso di una fase storica nuova ed eccezionale, in cui tutto poteva succedere e in cui tutti i policymakers (non solo quelli italiani) non disponevano più di qualsivoglia consolidato e indiscusso principio di riferimento per le loro scelte e le loro azioni. In questo modo evita il peccato mortale dello storico, ossia il moralismo anacronistico. E dunque, per esempio, certamente il giudizio su Nitti è globalmente assai negativo, e in effetti il confronto con ciò che seppero realizzare dopo di lui Giolitti e Sforza è impietoso, tuttavia Di Rienzo con grande onestà non manca di citare un lungo documento in cui l’uomo politico lucano denunciava la follia di una politica “ufficiale” dei vincitori che portava a escludere dal consorzio civile, ma con ciò anche a indurle a coalizzarsi, Germania, Russia e Turchia; e quelle virgolette stanno a significare che in quegli anni l’Italia andò a riottoso rimorchio di tale politica, spesso (in particolare riguardo alla Turchia) attuando di fatto una politica opposta.
Questo importante libro ci fa vedere che la vicenda della conquista di Fiume e dell’instaurazione di una sorta di dittatura personale da parte di D’Annunzio non può essere affatto ridotta a un’estemporanea e istrionica iniziativa del “vate” e di una massa di seguaci imbevuti di entusiasmo nazionalista e bellicista. L’impresa dannunziana godette fin dall’inizio della (come minimo) benevolenza di una parte dell’apparato statale e della classe dirigente economica dell’Italia di allora, scontenta della debolezza che i nostri governi mostravano sia nei confronti del movimento operaio sia nei confronti dei nostri assai poco amici alleati (per non parlare dell’ostilissimo associato); al contempo, soprattutto nella prima fase, volle essere la chiamata a raccolta di tutti i popoli oppressi dal colonialismo anglosassone e francese e di tutte le forze che si opponevano all’ordine di Versailles, con forti pulsioni anticapitaliste.
Al che, viene molto facile, e così spesso si è fatto, irridere a un movimento che unì anarcosindacalisti e capitani d’industria ultranazionalisti, a un movimento antiplutocratico che vedeva nel movimento operaio rappresentato allora nella sua quasi totalità dal Partito Socialista il principale avversario. In realtà l’inestricabile contraddizione in cui si inviluppò l’esperienza della Fiume dannunziana merita il giudizio negativo dell’autore, ma rappresenta la contraddizione epocale della destra anticapitalista. Si può ben dire che il capitalismo industriale moderno dominato politicamente e culturalmente prima dal Regno Unito e poi dagli Stati Uniti d’America ha sconfitto un nemico maggiore dotato di un’ideologia, non importa se giusta o sbagliata, ma coerente, ossia il socialismo marxista e internazionalista, e un nemico minore, su cui recentemente un intellettuale non certo sospettabile di preconcetta malevolenza, Alain De Benoist, che proprio da quei lidi è partito nella sua avventura intellettuale, ha speso severe parole:
“La destra avrebbe potuto sviluppare, come Herder, una filosofia della storia fondata sulla diversità delle culture e sulla necessità di riconoscerne il valore universale, il che l’avrebbe portata a sostenere le lotte a favore dell’autonomia e della libertà dei popoli, cominciando con i popoli del Terzo Mondo, prime vittime dell’ideologia del progresso. Invece di fare questo, ha difeso il colonialismo, che pure in un primo momento aveva a giusto titolo condannato (il che non le impedisce di lamentarsi, di tanto in tanto, di essere a sua volta “invasa” o “colonizzata”).
La destra ha dimenticato che il suo vero nemico è il denaro, e che di conseguenza avrebbe dovuto mettersi alla prova come alleata oggettiva di tutti coloro che contestano il sistema che sul denaro si fonda, e invece è passata per gradi dalla parte di quel sistema. Era attrezzata meglio di chiunque altro per difendere, riformulandoli, valori anti-utilitaristici di gratuità e disinteresse, e a poco a poco si è convertita all’assiomatica dell’interesse e alla difesa del mercato. Parallelamente, è caduta nel moralismo, nel militarismo, nel nazionalismo, che altro non è se non un individualismo collettivo già condannato, in quanto tale, dai primi controrivoluzionari. Il nazionalismo l’ha fatta cadere nella metafisica della soggettività, malattia dello spirito sistematizzata dai moderni, facendole perdere nel contempo la nozione di verità”.
Esemplarmente, anche la solidarietà con i popoli oppressi esibita da D’Annunzio si traduceva e avviliva in una critica sì al colonialismo, ma solo a quello degli altri, perché non si univa alla benché minima autocritica rispetto al colonialismo italiano e in particolare alla propria personale passata esaltazione della guerra libica. Stessa incapacità di mostrare ai “popoli oppressi” dell’Indocina qualcosa di realmente diverso dalla sostituzione di un dominio con un altro avrà il Giappone durante la seconda guerra mondiale. Però è anche vero che nel nazionalismo dannunziano c’era quella radice umanistica tutta italiana, quel respiro culturale che, come opportunamente ci ricorda Di Rienzo nelle ultime pagine del libro, lo portò a un istintivo, prepolitico orrore e disprezzo per l’“imbianchino austriaco”.
Su un piano meno vasto e più contingente, il nazionalismo italiano fallì, e non poteva non fallire, anche nel voler conciliare il proposito di spostare quanto più possibile ad est (con robustissime ragioni storiche, sia ben chiaro) i confini del Paese e quello di contrastare il progetto jugoslavo, che era di fatto il progetto di una grande Serbia. Quelle che sono alcune tra le pagine più interessanti del libro portano alla conclusione che l’Italia ebbe, del tutto in contrasto con i suoi obiettivi e il suo interesse, un ruolo importante, probabilmente decisivo, nel far accettare a croati e sloveni, che di per sé non avevano alcuna voglia di essere soggetti a Belgrado, l’unione con la Serbia. Solo con questa unione, infatti, questi due popoli, che avevano combattuto tenacemente fino all’ultimo sotto le bandiere asburgiche, potevano riciclarsi come comunità liberate ed evitare di lasciare all’Italia troppe centinaia di migliaia di connazionali. E del resto, con ruoli ed esito invertiti, quello italiano non fu anche dopo, tra il 1943 e il 1947, il principale “fattore catalizzante” che permise il rinnovarsi dell’unione? Qui la fantasia della storia controfattuale galoppa. Dobbiamo frenarla. Ma di certo non era né ovvio né fatale che il Regno Serbo-Croato-Sloveno nascesse, sopravvivesse e si riproducesse nella forma della federazione titina.
Questo volume di circa 1000 pagine si basa su una messe impressionante di documenti anche inediti e quasi sempre li fa “parlare” estesamente dopo averne riassunto il contenuto, laddove di solito in questi casi un documento o lo si riassume o lo si trascrive o nel caso lo si commenta dopo la citazione. Con l’inconsueta modalità espositiva da lui qui preferita l’autore sembra volere incitare il lettore, in una prospettiva quasi dialogica, a ricontrollare lui stesso. Ma anche per altri piccoli particolari spira per tutta l’opera un’aria di originalità, di libertà, di inquieta indagine. Un’aria di cui abbiamo bisogno.
(Pubblicato l’8 dicembre 2022 © «Destra.it» – Libri &LIBERI)