di Dino Messina
In un nuovo libro di Eugenio Di Rienzo una lettura revisionista, ma non neoborbonica, sul conflitto che portò alla unificazione italiana nel 1861
«L’Europa e la ‘questione napoletana’ 1861-1870», il nuovo libro di Eugenio Di Rienzo appena pubblicato da D’Amico editore, nasce da una discussione avuta dall’autore, docente alla Sapienza di Roma, con Paolo Mieli. Questi alcuni anni fa chiedeva all’accademico un parere sul perché — mentre la storiografia italiana era stata capace di fare i conti con la guerra civile del 1943-’45, grazie anche al contributo di grandi studiosi come Claudio Pavone, recentemente scomparso, che sdoganò a sinistra il concetto di guerra civile, e di Renzo De Felice — invece sul conflitto che portò all’unificazione italiana nel 1861 non si è riusciti a trovare un terreno comune di discussione tra le varie tendenze. Infatti ancora oggi le due versioni dominanti sono da un lato quella che vede il processo risorgimentale come una marcia gloriosa e senza macchia verso l’unità e, dall’altro, il racconto neoborbonico che dipinge il Regno delle due Sicilie come un Eldorado depredato dagli aggressori sabaudi e il processo di unificazione un’annessione violenta fatta al prezzo di violenze e distruzioni. Due punti di vista estremi che nel libro di Di Rienzo trovano un punto di incontro basato sulla verità dei fatti e non sulle convinzioni ideologiche.
Il «bilancio» dei Borbone
Il Sud prima dell’unificazione non era certo l’Eldorado ma la ricchezza di certe sue aree poteva paragonarsi a quella media del Nord; c’erano aree di sottosviluppo profondo come il Molise e la Basilicata, dove la povertà era paragonabile a certe zone del Veneto. Il Regno delle Due Sicilie non aveva industrie sviluppate come in Lombardia ma aveva anche le sue eccellenze e una flotta mercantile senza rivali, soprattutto dal punto di vista quantitativo. Per non parlare delle finanze dei Borbone, una cassa florida cui attinse un Regno sabaudo stremato dai debiti soprattutto a causa delle guerre risorgimentali.
Chi erano i «briganti»
Di Rienzo usa una lente che non ingrandisce né rimpicciolisce anche quando affronta la questione del brigantaggio, fenomeno cruento che tenne impegnato il neonato Regno d’Italia dal 1861 al 1866 e che fu debellato soltanto dopo il 1870, con la presa di Roma. Nelle bande dell’esercito di briganti che chiedevano il ritorno dei Borbone non militavano soltanto banditi, renitenti alla leva, poveri contadini, ma c’erano anche ufficiali dell’esercito sconfitto, ex garibaldini e liberali che avevano partecipato ai moti del 1848 e ora, delusi dall’ondata repressiva dei Savoia, speravano nel ritorno dei Borbone con una monarchia finalmente costituzionalizzata.
La corte in esilio
Attorno a questa ipotesi lavorava Pietro Calà Ulloa, il primo ministro del governo in esilio di Francesco II, che dal febbraio 1861 si era trasferito a Roma, a Palazzo Farnese. Nella corte borbonica in esilio si scontravano due tendenze: da un lato quella dei lealisti reazionari che vedevano come unico strumento per tornare a Napoli la lotta armata e il finanziamento del brigantaggio, dall’altro i moderati di formazione liberale convinti che fosse più efficace un’azione diplomatica. Per questo vennero attivati contatti nei vari parlamenti europei e «la questione napoletana» divenne da Londra a Parigi uno dei temi della contesa politica.
Gli occhi del mondo
In appendice al volume di Di Rienzo è pubblicato il discorso che Lord Henry George Charles Gordon-Lennox tenne alla Camera dei Comuni l’8 maggio 1863. L’intervento del parlamentare inglese, che in passato aveva appoggiato le aperture verso la costruzione di un’Italia unita, si basava sulle informazioni ottenute durante un soggiorno a Napoli. Secondo Lennox l’unico risultato ottenuto con la cacciata dei Borbone era stato quello di instaurare un nuovo dispotismo, con un sistema di arresti arbitrari, e un’ondata indiscriminata di epurazioni contro i membri dell’esercito e del personale amministrativo. Lennox, su autorizzazione del generale Lamarmora, era riuscito a entrare in alcune carceri di Napoli e della provincia, dove aveva incontrato capi della resistenza borbonica come il legittimista alsaziano Emile Théodule de Christen e il carlista spagnolo Rafael Tristany y Barrera, ma anche popolani ridotti in ceppi sulla base di semplici sospetti. Quello di Lennox fu il più documentato di una serie di interventi, soprattutto di parte conservatrice, preoccupati dall’instabilità che poteva derivare dalle nuove mosse del neonato Regno italiano. Si temeva infatti che Vittorio Emanuele II potesse cedere la Sardegna alla Francia e con ciò minare il primato britannico nel Mediterraneo.
Nel dibattito internazionale era entrata anche un’altra questione, quella della camorra. Non era un segreto che la consorteria delinquenziale campana avesse dato man forte all’esercito dei Mille. Tanto, scrive Di Rienzo, che il garibaldino russo Lev Illic Mecnikov avrebbe potuto osservare nelle sue memorie che “soltanto l’intervento della camorra (guidata da Salvatore De Crescenzo e dalla sanguinaria sorella, Marianna, detta la Sangiovannara) riuscì … a impedire una sommossa lealista, grazie a una serie di atti di intimidazione contro i sostenitori di Francesco II, e poi ad assicurare al ‘partito italiano’ il completo controllo delle zone strategiche della città”. La Sangiovannara costrinse il sottoproletariato dei Quartieri spagnoli, anche con elargizioni di denaro, ad assumere un atteggiamento patriottico. Nella pubblicistica internazionale dell’epoca non solo si sottolineava il contributo camorristico all’ingresso di Garibaldi nella ex capitale del Regno, ma ci si interrogava sulle bande di agrari che in Sicilia erano andate a ingrossare le file dei Mille. Insomma, Di Rienzo in questo suo lavoro ci offre la fotografia della nascita di una nazione che fu possibile anche grazie a qualche peccato originale. Senza tuttavia avallare le leggende nere neoborboniche che dipingono un Sud mai esistito.
Il “partito napoletano” godette di un certo appoggio anche nella corte di Napoleone III, l’imperatore, cui Di Rienzo ha dedicato una biografia, che tanto contribuì al processo unitario italiano. “A sancire la definitiva sconfitta dei progetti di restaurazione di Palazzo Farnese – osserva l’autore nelle pagine conclusive – sarà … il mutamento del quadro internazionale, dopo la vittoria della Prussia contro l’Impero asburgico, il trattato di Praga del 3 luglio-23 agosto 1866 e quello di Vienna tra Italia e Austria (3 ottobre), che obbligò infine anche Vienna a riconoscere il Regno di Vittorio Emanuele. Nel 1867 le conseguenze del nuovo terremoto politico europeo convinsero Francesco II dell’opportunità di sciogliere il governo borbonico in esilio e poi, il 21 aprile 1870, lo spinsero a trasferirsi a Parigi, cinque mesi prima dell’ingresso di Raffaele Cadorna nell’Urbe”.
(Pubblicato l’8 dicembre 2016 – © «Corriere della Sera»)