di Eugenio Di Rienzo
Noi italiani abbiamo il preciso dovere di celebrare l’importanza storica della Breccia di Porta Pia. Eleggerla a festività nazionale significherebbe riconoscere non solo un momento fondativo del nostro paese ma sottolineare quella scintilla di orgoglio che impose l’Italia sul palcoscenico d’Europa. Non a caso, questo anniversario è stato uno dei momenti storici più amati dagli italiani, divenendo dal luglio 1895, forse la principale ricorrenza civile del nostro Paese, prima della sua abolizione da parte di Mussolini a seguito della firma dei Patti Lateranensi.
Dunque, perché dovremmo eleggerla a festa nazionale? Compiamo un passiamo indietro, tornando all’intervento parlamentare del 25 marzo 1861, con il quale Cavour, interrogandosi «sul diritto e sul dovere di insistere affinché Roma fosse riunita all’Italia», tagliava di netto la questione, sostenendo che «senza Roma, capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire». Di conseguenza, l’annuncio della “marcia su Roma”, conclusasi, il 20 settembre 1870, era un guanto di sfida lanciato all’opinione pubblica internazionale che scorgeva nelle parole di Cavour la volontà di continuare la sistematica opera di prevaricazione compiuta dai Savoia contro gli antichi governi della Penisola.
Non erano d’accordo con questa scelta, non soltanto la maggioranza dei cattolici europei ma anche esponenti della cultura di chiara fama, fra cui il filosofo francese Proudhon (socialista e anticlericale), che non esitarono a dichiarare apertamente di non comprendere la necessità di conquistare Roma e di trasferirvi la capitale del nuovo Regno. Chi, come Cavour, esprimeva la volontà di fare Roma capitale d’Italia, speculava sull’effetto retorico che quel nome, Roma, produceva sulle masse, sperando che nessuno osasse domandare «se allo spettacolo delle antiche rovine non sia preferibile quello di una locomotiva che trasporta con la rapidità del vento una massa di uomini tutti eguali, tutti liberi, tutti intenzionati a formare un unico Paese».
Il fragore degli applausi che accolse le storiche parole di Cavour nell’aula del neonato Parlamento italiano, coprì le voci di alcuni artefici del moto risorgimentale assolutamente sfavorevoli. Fra questi anche Massimo d’Azeglio che aveva negato ogni rapporto di continuità tra l’antica Roma, cuore di un Impero corrotto e parassitario, e l’Italia del 1861 che trovava il suo punto di forza «nell’onestà dell’amministrazione, nell’indipendenza dei partiti, nella libera iniziativa dei singoli».
Da ciò cosa possiamo dedurre?
Pur non tacendone l’effetto retorico, l’intento di mirare al cuore del popolo, la scelta di Roma fu certamente determinante perché sorgesse un sentimento nazionale, un momento storico che sancì un riassetto delle forze politiche e la nascita, effettiva non solo sulla carta, di un nuovo soggetto politico sulla scena europea. Ecco perché oggi abbiamo il dovere di celebrare la Breccia di Porta Pia, eleggendola a festa nazionale.
Certamente la decisione di fare dell’Urbe il centro politico del nuovo Stato non rappresentò una scelta condivisa ma che evidenziò, al contrario, le divergenze e i risentimenti regionalistici della Penisola. Difatti, da una parte, pubblicisti e uomini politici del Sud videro nell’abbandono di Torino il modo di evitare il perpetuarsi dell’egemonia piemontese. Dall’altra, i loro omologhi settentrionali valutarono con preoccupazione il pericolo che quella decisione potesse condurre alla meridionalizzazione dell’intera Italia.
Conseguentemente, ci si persuase che il Mezzogiorno fosse privo della preparazione culturale e della tempra morale, necessarie a fornire una classe dirigente nazionale. Solo con molto ritardo le élites del Nord finirono per, infatti, per insediarsi stabilmente a Roma, dando il proprio contributo alla vita politica del Paese, solo alla fine del secolo XIX.
Alla luce di questa narrazione, celebrare la Breccia di Porta Pia è non solo giusto ma necessario, a patto che sia una festa del popolo e di orgoglio nazionale, non una rivendicazione politica.
(Pubblicato il 21 settembre 2020 – © «Il Messaggero»)