di Aurelio Musi
È possibile percorrere una terza via fra la vulgata neoborbonica e quella neo-sabaudista nella visione del brigantaggio meridionale? Cerca di indicare una risposta a questa domanda il recente volume di Eugenio Di Rienzo, Il brigantaggio postunitario come problema storiografico, pubblicato da un editore della provincia meridionale, Vincenzo D’Amico, editore a Nocera Superiore, giovane ma già affermatosi con titoli importanti di storia e letteratura. L’autore, direttore di “Nuova Rivista Storica”, professore alla Sapienza e storiografo militante, per così dire, ha al suo attivo numerose opere non convenzionali sulla storia del Mezzogiorno, tese a rivedere orientamenti tradizionali.
Di Rienzo prende avvio dall’invito di Leonardo Sciascia a comprendere l’identità politica dell’insorgenza antiunitaria nel Mezzogiorno. La tesi di fondo si articola lungo tre direzioni fondamentali. La prima: nell’unificazione della penisola svolsero un ruolo decisivo le potenze straniere, in particolare quella inglese. La seconda: quella del brigantaggio fu “la prima guerra civile italiana”. E per finire: ci fu una guerra intestina anche fra i notabili meridionali, fra quelli apparentemente più illuminati che, per interessi opportunistici, si unirono ai liberali settentrionali, e quelli tradizionalisti che difesero il blocco borbonico.
Dai neoborbonici Di Rienzo si distingue nettamente perché non accoglie l’ideologia dei primati, non nega l’inevitabilità del processo di unificazione, contesta la visione del rapporto neocoloniale che si venne a stabilire tra Nord e Sud. Ma, al tempo stesso le posizioni di Di Rienzo sono distanti dall’orientamento liberale ortodosso che esalta “le magnifiche sorti e progressive” dell’Unità così come si venne a configurare e a realizzare nel nostro paese.
Collocandosi lungo una linea già percorsa da Carmine Pinto, Di Rienzo condivide il giudizio sulla natura del brigantaggio come rivolta politica e come soggetto protagonista della “guerra civile italiana”. A differenza di Pinto, tuttavia, egli sottovaluta il peso che ebbero alcuni fattori nel determinare il fallimento sul nascere di una grande guerra civile. Quei fattori, che favorirono il successo della soluzione unitaria nel Mezzogiorno, furono: l’implosione del regime borbonico e la fragilità della personalità di Francesco II, l’integrazione fra Garibaldi e Cavour, la tradizione liberale meridionale, la forza del blocco sociale che difese la soluzione unitaria, la continuità amministrativa, il valore del Plebiscito. La controrivoluzione borbonica non riuscì a condizionare il processo di unificazione.
Certo – e questa è la parte più condivisibile del libro – carenze e limiti di tale processo non vanno sottovalutati. Ma essi furono ben presenti anche ai protagonisti del primo meridionalismo, quello classico, come ricorda anche Di Rienzo: la mancanza di una strategia di acquisizione del consenso, la centralizzazione bonapartista, le decisioni sbagliate della classe dirigente liberale, gli errori nell’unificazione economica. A proposito, interessanti sono le osservazioni comparative col modello della Germania, giunta a una ben diversa unificazione, e quindi a una vera unità, nel 1870, grazie al decennale lavorio di Bismarck. In appendice è pubblicato l’opuscolo di Tommaso Cava de Gueva, Analisi politica del brigantaggio attuale nell’Italia meridionale (Napoli, 1865).
L’interesse maggiore del saggio, anche per i non addetti ai lavori, è nell’analisi puntuale della storiografia più recente non solo sul problema del brigantaggio ma, in generale, sul rapporto che si venne a creare tra il Nord e il Sud dell’Italia dopo l’Unità.
(Pubblicato il 21 dicembre 2020 © «La Repubblica»)