di Eugenio Di Rienzo
Il volume di Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo (Salerno Editrice, € 13,00), è un saggio ricco di fatti che offre un affresco vivace della «Nazione napoletana» dal 1848 alla catastrofe del 1860. Peccato che tanta dottrina sia stata messa al servizio di una tesi che intende espellere dall’aiuola della storiografia mainstream una versione alternativa di questi eventi. Per l’autrice, chi ha osato mettere in discussione la sacra vulgata risorgimentale va annoverato tra i profani della storia.
Sarebbe opportuno, allora, ricordare che gli studiosi che hanno promosso una revisione della vicenda del processo unitario, in relazione al Mezzogiorno d’Italia, sono «professori di storia» e non dilettanti allo sbaraglio, adepti di qualche congrega neo-borbonica. E per farlo basterà qui ricordare i nomi di Paolo Macry, Roberto Martucci, Paolo Malanima, Salvatore Lupo. Nessuno di loro, certo, ha tessuto le lodi del buon governo di Ferdinando II, ha paragonato lo sviluppo industriale del Regno del Sud a quello dell’Inghilterra, ha preteso di fare della capitale borbonica una città moderna, simile per il suo sviluppo urbanistico a Londra e Parigi.
Gli storici revisionisti non hanno alimentato il mito della Borbonia felix ma hanno ricordato che nessun’altra parte d’Italia meritò, nella seconda metà del XIX secolo, quell’appellativo. Non fu felix neppure l’area del futuro triangolo industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria), il cui prodotto interno era pari o non superava di molto, comunque, quello di Napoli e del suo hinterland. Furono certamente infelici, per povertà e arretratezza, Calabria, Lucania, Abruzzi, esattamente come lo furono, però, il Veneto e le aree appenniniche del Centro-nord. Inoltre, se i bilanci degli altri Stati italiani (Piemonte in testa) segnavano il profondo rosso, con grande difficoltà a ottenere prestiti dall’estero, i titoli sovrani delle Due Sicilie erano ritenuti un investimento sicuro in tutte le piazze europee, come ha dimostrato la recente ricerca di una studiosa belga (Stéphanie Collet, A unified Italy? Sovereign debt and investor scepticism).
I titoli napoletani prima del 1861 pagavano il tasso più basso (4,3%.) 140 punti base in meno delle emissioni piemontesi che rappresentavano il 44% del debito unitario. Forzando un paragone, si potrebbe dire che il Regno di Napoli economicamente era per l’Italia quello che oggi la Germania è per l’Eurozona. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era la sola metropoli della Penisola. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, anche se soprattutto concentrata nel settore pubblico, un’agricoltura prospera che esportava i suoi prodotti in Europa e negli Stati Uniti, porti ben attrezzati e una forte marina commerciale.
Subito dopo il 1861, però, lo scetticismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un premio di rischio comune a tutti i debiti degli Stati preunitari. Lo spread iniziò ad aggredire anche i titoli napoletani, aggregati a quelli del Regno d’Italia (i cosiddetti Italy-Neapolitan bonds), elevandosi a 260 punti base in più che nel 1860, poi innalzatisi a 460 nel 1870. In un decennio la crisi del credito sovrano dello Stato unitario depauperò il risparmio privato del Mezzogiorno e contribuì a creare quel divario Nord-Sud che costituisce, oggi, uno dei mali più gravi dell’Italia infelix.
(Pubblicato il 12 luglio 2013 – © «il Giornale»)