di Paolo Mieli
In apparenza Camillo Benso conte di Cavour e Otto von Bismarck-Schönhausen hanno in comune solo il fatto (certo non secondario) di essere stati, nella seconda metà dell’Ottocento, gli artefici di due grandi Stati europei: l’Italia e la Germania. Per il resto furono uomini assai diversi. Ma l’intreccio tra i due – anche se il secondo giunse al potere quando il primo era già prematuramente scomparso – ebbe un qualche rilievo e fu all’origine dell’alleanza italo-prussiana che portò al conflitto del 1866, raccontato nei nostri manuali come «terza guerra d’indipendenza». Uno scontro nel quale la Prussia trionfò con la vittoria di Sadowa e l’Italia, quantomeno quella militare, andò in frantumi con le sconfitte di Custoza e di Lissa. Conclusosi con l’onta dell’Italia che ricevette il Veneto – per il quale la guerra era stata combattuta – dalle mani di Napoleone III a cui era stato ceduto dall’Austria. C’è un particolare di quella vicenda che è molto interessante. Poco prima che la guerra iniziasse, l’Austria ci aveva offerto il Veneto in cambio dello scioglimento del patto militare con la Prussia. Ma l’Italia non accettò. Perché voleva ottenere quelle terre alla stessa maniera con cui Giuseppe Garibaldi sei anni prima aveva conquistato il Sud, cioè combattendo. Perché ambiva anche a Trento e Trieste. Ma anche perché le classi dirigenti postcavouriane volevano fondere in quell’esperienza militare la memoria del leader scomparso con il presente del cancelliere che si apprestava a costruire la Germania.
Furono, dicevamo, quella del conte e quella del cancelliere due personalità assai diverse. E nell’introduzione al suo libro in uscita dopodomani per i tipi del Mulino, Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo, Gian Enrico Rusconi mette bene in evidenza le diversità tra i personaggi ai quali il saggio è dedicato. Cavour, scrive, «è l’esempio di una guida politica esercitata secondo la logica parlamentare liberale, carica di contrasti, in una dinamica politica vivace e dura, segnata da forti personalità (Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e il re Vittorio Emanuele); è un liberale convinto, un leader risoluto nel Parlamento e grazie al Parlamento». Bismarck invece «incarna il principio d’autorità monarchica, con l’utilizzo spregiudicato di strumenti democratici (il suffragio universale), in costante tensione e conflitto con il Parlamento; non ha antagonisti politici della sua statura e dispone del formidabile strumento militare dell’esercito prussiano; è un leader antagonista al Parlamento, un rivoluzionario bianco». Ma – in periodi contigui, gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento; l’unificazione nazionale italiana si realizza tra il maggio del 1859 e il marzo 1861; la prima unificazione tedesca è del 1867, la proclamazione del Reich unitario avverrà nel 1871 – entrambi affrontano il liberalismo parlamentare e l’opinione pubblica con comportamenti che evocano, a detta di molti, forme «dittatoriali» o «cesariste». Con un legame che congiunge l’esperienza italiana a quella tedesca.
Già nel 1853, quando conia il concetto paradigma di Realpolitik, August von Rochau è un grande ammiratore di Cavour e accenna all’«esempio della Sardegna» che sta ponendo le premesse «per una grande originale operazione nazionale». Poi è la guerra di Crimea (1853-1856): Cavour partecipa e in virtù di quell’intervento riesce a sedere al tavolo dei vincitori al congresso di Parigi. In quei giorni un importante storico tedesco, Max Duncker, scrive al collega Johann Gustav Droysen: «Come andrebbero diversamente le cose in Germania se i nostri amici politici berlinesi potessero essere rimpiazzati da Cavour e d’Azeglio! Ma verranno anche i nostri tempi». Colpisce quanto forte sia stata già allora la suggestione degli eventi italiani su alcuni politici e intellettuali tedeschi. Il primo ad esserne affascinato è proprio Bismarck che nel 1860 non ha ancora ruoli di governo ed è solo inviato prussiano alla corte di Pietroburgo. A differenza di molti suoi connazionali, il futuro cancelliere è già allora simpatizzante per la causa dell’Italia unita nonché apertamente ostile all’Austria (che pure fa parte della Confederazione germanica), al punto che, in dicembre, dichiara pubblicamente che «per la Prussia è bene che si formi uno Stato italiano». E una volta che quello Stato si è formato, in una lettera al ministro degli Esteri prussiano Albrecht von Bernstorff insiste: «Dovremmo inventare noi il regno d’Italia, se non fosse già nato per conto suo». Anche se, conscio delle difficoltà che lo attendono, pochi giorni prima di diventare capo del governo prussiano aggiunge di non sentire «la vocazione di spingere la Prussia sui binari della politica di Cavour». Ma quella vocazione arriverà ben presto. Al punto che un eminente liberale, il quale fino a quel momento lo aveva guardato con sospetto, Rudolf von Jhering, nell’agosto del 1866 (quando la Prussia bismarckiana aveva appena sconfitto l’Austria) potrà scrivere: «Come ho invidiato per anni gli italiani per il fatto che a loro fosse riuscito quello che a noi il destino sembrava aver rimandato a un lontano futuro; come ho desiderato un Cavour tedesco e un Garibaldi come messia politico della Germania; poi di colpo esso è comparso tra noi nella persona del sempre insolentito Bismarck».
Già, «sempre insolentito». Ma perché i liberali tedeschi avevano costantemente attaccato Bismarck a differenza di quelli italiani che avevano sostenuto Cavour? Per il fatto che il cancelliere era sempre stato a loro ostile e, appena andato al governo, nel 1862, li aveva presi di mira accusandoli di scarso patriottismo, poiché avevano rifiutato di approvare il costoso rafforzamento dell’esercito, indispensabile per far diventare la Germania una nazione. «La Germania», aveva tagliato corto Bismarck, «non guarda al liberalismo della Prussia, ma alla sua potenza. La Baviera, il Württemberg, il Baden possono indulgere al liberalismo perché a essi non è attribuito il ruolo della Prussia. La Prussia deve concentrare la sua forza e tenerla insieme per il momento favorevole che ha mancato altre volte. Le grandi questioni del nostro tempo si decidono non con discorsi e risoluzioni di maggioranza – questo è stato il grande errore del 1848 e del 1849 – ma con il ferro e il sangue». Cavour, osserva Rusconi, non avrebbe mai detto cose del genere, non avrebbe mai contrapposto e messo in alternativa la scelta della guerra con «i discorsi e le risoluzioni di maggioranza». Per lui il consenso del Parlamento era fondamentale. «Non ho alcuna fiducia nelle dittature», dirà Cavour, «e soprattutto nelle dittature civili. Io credo che con il Parlamento si possano fare molte cose che sarebbero impossibili per un potere assoluto… Sono figlio della libertà ed è ad essa che devo tutto quello che sono. Se bisognasse mettere un velo sulla sua statua, non sarò io a farlo. Se si arrivasse a persuadere gli italiani che occorre loro un dittatore, essi sceglierebbero Garibaldi e non me. Ed avrebbero ragione. La via parlamentare è più lunga ma è più sicura». Nell’ottobre del 1860 Cavour respinge ogni tentazione dittatoriale. «Il miglior modo di dimostrare quanto il paese sia alieno dal condividere le teorie di Mazzini e i rancori di Bertani e di Crispi, è di lasciare al Parlamento liberissima facoltà di censura e di controllo. Il voto favorevole che sarà sancito dalla grande maggioranza dei deputati darà al ministero un’autorità morale di gran lunga superiore a ogni dittatura». Poi, contro la richiesta di pieni poteri da parte di Garibaldi, aggiunge: «Reputo che non sarà l’ultimo titolo di gloria per l’Italia di aver saputo costituirsi a nazione… Senza passare per le mani dittatoriali di un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario».
Ben diverso e quasi sprezzante nei confronti dei deputati il giudizio di Bismarck che da primo ministro nel 1863 scrive a un amico: «Siedo in Parlamento, nella casa delle chiacchiere, sento gente che dice cose senza senso…». Per Bismarck, fondamentali sono semmai i sudditi fedeli al re pronti a mobilitarsi contro i demagoghi democratici, tra i quali demagoghi annovera anche e soprattutto i liberali. Dice: «È mia intenzione mantenere e rafforzare la posizione di forza della Corona contro il peso esagerato crescente della Camera dei deputati e del gruppo dei funzionari in Parlamento». E ancora: «Io odio la politica, ma così come il droghiere odia i fichi che vende, nondimeno io sono obbligato nei miei pensieri a occuparmi di quei fichi… Non ho mai immaginato che nei miei anni maturi sarei stato costretto a esercitare un mestiere senza dignità come quello di ministro parlamentare».
Per quel che concerne, poi, il termine «rivoluzione», una sola volta Cavour si dice pronto a «farsi rivoluzionario», in un momento d’ira all’indomani del trattato di Villafranca (allorché Napoleone III interrompe la campagna vittoriosa contro l’Austria). Per il resto il conte dichiara di voler fare ogni sforzo «per impedire che il movimento italiano cessi di essere nazionale per diventare rivoluzionario». Per lui la rivoluzione è nient’altro che un drastico mutamento di regime conseguenza di un’insurrezione minoritaria che consegna i poteri a un dittatore. Così quando nell’agosto del 1860 Garibaldi passa lo stretto di Messina e si avvia verso Napoli, Cavour scrive a Carlo Pellion di Persano, comandante della flotta sarda: «Il governo desidera che se una rivoluzione si compie a Napoli, ella accetti la dittatura, se venisse offerta dal popolo». Analoga missiva invia a Salvatore Pes di Villamarina, suo uomo di fiducia nel Regno delle Due Sicilie: «Se si compie la rivoluzione bisogna che Persano e lei accettiate la dittatura; in questo momento è necessario preoccuparsi più della rivoluzione che della diplomazia». Dopodiché, fallito l’auspicio di prendere il potere a Napoli con i suoi uomini, Cavour mette in atto un altro piano, l’invasione dello Stato pontificio con il pretesto, appunto, di prevenire una rivoluzione: «Onde impedire che la rivoluzione si estenda nel nostro regno, non havvi oramai che un mezzo solo: rendersi padroni senza indugio dell’Umbria e delle Marche». Nessuna indulgenza, dunque, da parte del conte nei confronti di quella magica parola dell’Ottocento. Bismarck è, se è possibile, ancor meno flessibile di lui ma, con una buona dose di cinismo, dice: «Se rivoluzione deve essere, tanto vale che la facciamo noi». E non esita, quando pensa gli possa tornare utile, a concedere il suffragio universale (maschile) che all’epoca, 1867, è da molti considerato uno strumento istituzionale «rivoluzionario». Ma in tale concessione – al di là delle apparenze – non c’è niente che abbia a che fare con una rivoluzione. Il suffragio universale concesso dal cancelliere, osserva Rusconi, «non costituisce il riconoscimento della sovranità popolare, ma resta una misura populista, in una struttura costituzionale che continua a non essere parlamentare perché al di sopra del Parlamento rimangono le prerogative sovrane della monarchia, di fatto gestite dal cancelliere in modo cesarista».
Quando nel 1861, poco dopo aver «fatto l’Italia», Cavour muore, dagli ambienti liberali tedeschi si leva un coro di lodi nei suoi confronti. Ma, nota Rusconi, l’immagine del conte quale emerge da queste valutazioni è legata sì ai valori liberali e però viene apprezzata soprattutto per la sua capacità di governare, di decidere, di guidare addomesticandola la «rivoluzione» democratica. Cavour «incarna il liberalismo che sa decidere; di qui il paradosso in base al quale l’illiberale Bismarck riuscirà dal 1862 a imporsi al liberalismo politico-nonostante l’incompatibilità dei valori politici da lui incarnati-proprio perché in grado di risolvere le questioni che paralizzano il liberalismo stesso».
I due statisti, infine, hanno alle spalle due re molto diversi: l’iperattivo Vittorio Emanuele e l’assai più incerto Guglielmo. È una differenza su cui si sofferma l’inviato britannico a Berlino Francis Napier of Merchiston, il quale, nel tracciare le diversità tra il Cavour del 1859 e il Bismarck del 1866, scrive: «Il conte di Cavour aveva dietro di sé un sovrano deciso, una popolazione unita e una causa popolare. Il conte Bismarck invece ha al fianco un sovrano esitante, con una coscienza insicura che agisce sotto influenze differenti, ha dietro di sé una nazione ostile e davanti a sé una causa che per un certo grado è popolare nel suo obiettivo, ma contrasta il sentimento pubblico nella forma e nel metodo». Anche il liberale tedesco Hermann Baumgarten fa un preciso riferimento a Vittorio Emanuele II: «L’Italia aveva un uomo (Cavour) che univa grande coraggio con ancor più grande saggezza, e aveva un re nel quale albergavano veri sentimenti monarchici; l’Italia non era corrosa da ostinato dottrinarismo; mentre il continente sospirava sotto una restaurazione che si estendeva dalla Prussia alla Spagna, la piccola Sardegna si azzardò a essere costituzionale e a preparare il terreno alla moderna economia, una scossa che doveva cambiare la situazione del continente dalle fondamenta».
I liberali e i rivoluzionari tedeschi vedono Bismarck come un erede dell’odiato Napoleone III, giunto al potere con il colpo di palazzo del 1851, successivamente legittimato con il consenso popolare. C’è una lettera di Friedrich Engels a Karl Marx nella quale si fa cenno esplicito a Bismarck «discepolo» del Bonaparte. Cavour ai loro occhi rappresenta invece una corretta fusione tra principio liberale e nazionale. Uno dei più grandi storici dell’epoca, Heinrich von Treitschke, negli anni Sessanta (dell’Ottocento) passa dal disprezzo nei confronti del cancelliere all’ammirazione e alla tentazione di collaborare con Bismarck. Nella seconda metà di quel decennio Treitschke scrive poi una biografia di Cavour per indicare lui (e non quell’«enigmatico demagogo» che risponde al nome di Giuseppe Mazzini) come modello ai suoi connazionali che, soprattutto dopo la guerra vinta nel 1866, cominciano ad avere simpatia per il cancelliere. «Il mio modesto intento», afferma, «è solo di mostrare ai nostri politici dilettanti con un grande esempio che cosa è una politica nazionale pratica». Cavour ha dato prova di «cosa sia una Realpolitik geniale». Anche da parte di Treitschke vengono lodi ai Savoia «ambiziosa stirpe principesca» che, «serrata tra regni rapaci e potenti», aveva «difeso attraverso i secoli il territorio di confine ora in campo aperto ora con le arti di una sagace diplomazia ». Di Cavour, secondo Treitschke, è mirabile ogni cosa: «l’arte magistrale del fingere»; «l’astuzia calcolatrice»; «la sua loquace franchezza che non si lasciava sfuggire una parola di più» e che come tale «si rivelò presto un’arma terribile contro la generale mediocrità della diplomazia che, non avvezza a quella arditezza, temeva un tranello dietro ogni parola»; la sua «filosofia del possibile, la migliore filosofia pratica che esista».
Cavour aveva mostrato di che stoffa era il suo patriottismo quando ebbe il moto d’ira, di cui si è detto, dopo il trattato di Villafranca. E fu un grande a cedere Nizza e la Savoia; del resto – faceva notare, non senza malizia, Treitschke – anche la Prussia nel 1813 aveva compensato l’aiuto russo cedendo allo zar territori polacchi virtualmente prussiani. Ebbe Cavour l’intuito di comprendere, in punto di morte, la drammaticità della questione meridionale. Unico rimprovero, quello di aver sottovalutato gli eccessi del centralismo: «Egli avrebbe preferito le regioni, ma non voleva porre una questione di gabinetto né offendere i centralisti della maggioranza; trascurò quest’affare gravissimo e poi morì». Già: «trascurò quest’affare gravissimo», notava uno dei più grandi storici tedeschi a pochi anni dalla morte dello stesso Cavour.
Molto interessante, a questo proposito, il punto che Rusconi fa sull’intricata questione del federalismo. «Questa problematica», scrive, «è stata ampiamente dibattuta dalla storiografia; qui la menziono soltanto per mettere in guardia dagli equivoci che si creano oggi quando la si associa al concetto contemporaneo di federalismo (magari inteso riduttivamente come “fiscale”), visto come alternativa mancata rispetto all’imposizione del centralismo». «Non c’è dubbio», prosegue, «che nell’Italia postunitaria abbia prevalso un’opzione centralista eccessiva, con la messa in moto di uno sviluppo squilibrato appesantito dal burocratismo». Ma, precisa subito, «l’alternativa federalista al centralismo unitario, oggi immaginata, non coincideva affatto con l’ipotetica Confederazione italiana, quale era caldamente raccomandata da Napoleone III, che si atteggiava a protettore dell’Italia».
Rusconi mette le mani avanti: il suo libro «non intende indagare come e perché oggi in Italia si è arrivati alla irrilevanza della nazione e dei protagonisti della sua costruzione, o come si siano originariamente creati emai risolti i gravi problemi del Meridione, il cui lascito rimette ancora oggi in discussione il senso dell’unità nazionale, costringendoci a una più matura e critica rivisitazione degli eventi immediatamente seguiti alla proclamazione, nel 1861, del Regno d’Italia».
Non sorprende, prosegue, che la Lega di Umberto Bossi, promotrice «di progetti più o meno convincenti ed efficaci di federalismo», caratterizzi la propria iniziativa «con un forte risentimento antinazionale e antiunitario». A ben vedere, «l’approssimativo revisionismo leghista dà semplicemente voce a una subcultura che approfitta dell’incapacità della cultura ufficiale di offrire argomenti idonei a riconoscere la positività del processo che ha portato all’unità nazionale e ad assegnare a Cavour una posizione a suo modo ancora esemplare, pur nel mutato contesto storico e politico». Un discorso che potrebbe portarci lontano, per il quale non si potrebbero trovare parole più appropriate.
(Pubblicato il 25 gennaio 2011 – © «Corriere della Sera»)