di Elisa D’Annibale
Nel 1946, nel clima politicamente infuocato, determinato dalle elezioni politiche e dal referendum istituzionale, Gaetano Salvemini pubblicava un articolo molto critico dedicato alla biografia di Benedetto Croce durante il ventennio nero. In quello, scritto, comunque, Salvemini non dimenticava di ricordare le benemerenze del filosofo nella lotta alla dittatura, sostenendo che:
Gl’italiani non dovrebbero mai dimenticare la gratitudine che debbono a Croce per la sua resistenza al fascismo dal 1925 al 1943. Ogni altra voce in Italia era soffocata nelle carceri, sequestrata a domicilio coatto, costretta a stare in esilio. Lo stesso suo silenzio era una protesta. Resistenza e silenzio venivano dalla stratosfera, senza dubbio. Ma il loro effetto era potente. Molti giovani furono confortati dal suo insegnamento e dal suo esempio a credere nella libertà, per quanto ognuno intendesse la libertà a modo proprio e a volte in forme che Croce non approvava. Ma quel che importava era che quella libertà non era il fascismo. Quel che importava era che Mussolini trovasse il maggior numero possibile di resistenze invincibili, anche se passive. Molte di quelle resistenze furono dovute all’insegnamento e all’esempio di Croce. Questo merito gli spetta, e nessuno dovrebbe dimenticarlo neanche oggi quando è necessario dissentire da lui.
Ciò detto, Salvemini sosteneva, però, che l’antifascismo di Croce, era stato, in fondo un antifascismo imbelle e puramente teorico, proprio di «un conservatore che aveva affiancato il fascismo e che, con ritardo, era diventato antifascista, limitandosi a negare il regime dittatoriale, senza prepararne la caduta e rinviando all’avvenire ogni discussione su questo problema». E Salvemini avrebbe insistito su questo giudizio in una posteriore lettera indirizzata a Mario Vinciguerra dove aggiungeva che «il no di Croce al fascismo rimase, sempre, un no quietista e non diventò mai un no attivista di chi rischia il pane, la libertà e magari la vita, perché non si può cancellare la differenza tra Budda che si guarda l’ombelico e Cristo che muore sulla Croce».
A contestare questo ingeneroso giudizio, interviene, ora Eugenio Di Rienzo, nel suo recente volume, Benedetto Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino Editore), per affermare che fortunatamente, esistono, “prove materiali”, tali da non far dubitare sul vigore e l’estensione della resistenza opposta da Croce al regime che non si limitò a una semplice, inoffensiva fronda che piacque, a parere dei suoi detrattori, a un esiguo gruppo di estimatori, tutti reclutati, tra l’oziosa, imbelle, «panciafichista», borghesia meridionale, aliena da ogni azzardo e cultrice del mugugno senza rischi.
Secondo i rapporti, inviati dall’OVRA a Palazzo Venezia, scrive Di Rienzo, Croce costituiva, già alla fine del 1934, il centro di una filiera nazionale e transnazionale di oppositori ai regimi totalitari italiano e tedesco. Filiera che univa le “vecchie glorie” della classe politica prefascista rimasta in Italia (Marcello Soleri, Ivanoe Bonomi, Vittorio Emanuele Orlando) o espatriata, ad alcuni attivissimi esponenti di spicco del movimento liberale, come Umberto Zanotti Bianco e Anton Dante Coda, a Casati e ad altri membri del Senato (Einaudi, Francesco Ruffini, Bergamini, Pietro Tomasi Della Torretta, Stefano Jacini), che anche dopo il 1929 non fu mai integralmente fascistizzato. Filiera che, poi, si allargava dalla vecchia guarda antifascista (Salvatorelli), alle giovani leve dell’opposizione al regime, d’impronta “gobettiana” (Carlo e Nello Rosselli, Norberto Bobbio, Franco Venturi, Arnaldo Momigliano, Leone Ginzburg), poi confluite nel movimento «Giustizia e Libertà», che erano state sedotte dal fiero discorso del filosofo, pronunciato al Senato, il 24 maggio 1929, contro l’approvazione dei Patti siglati, l’11 febbraio 1929, nel Palazzo di San Giovanni in Laterano.
Filiera, inoltre, che si sviluppava fino a includere persino uomini, in qualche modo legati al Partito Comunista d’Italia, come Ferdinando Amendola, cugino di Giorgio rifugiatosi in Francia nell’ottobre 1937, e che si sarebbe estesa al circolo frondista, comprensivo di notabili liberali ostili al regime e di esponenti dei vari parti antifascisti, compresi socialisti e comunisti, che si era formato sotto l’egida di Maria Josè di Savoia, alla quale Croce confidò, il 30 dicembre 1931, di non credere che «lo spirito di libertà non era spento in Italia ma che esso covava sotto le ceneri e che sarebbe divampato se il Re avesse fatto qualche gesto risoluto». A quel primo incontro clandestino, avvenuto nel Museo degli scavi di Pompei, seguì un affettuoso contatto epistolare con la figlia di Alberto I del Belgio, E, infine, il 28 marzo 1943, in un convegno romano, il filosofo raccomandò alla consorte dell’erede al trono, di fare il possibile perché Vittorio Emanuele III si decidesse a riprendere la pienezza delle sue prerogative per abbattere la dittatura, rompere il patto d’armi con la Germania, in modo da salvare l’Italia e la dinastia.
Il composito intreccio delle forze di opposizione, di cui il filosofo costituiva il vero e proprio asse portante, comprendeva, infine, anche grandi intellettuali europei, Karl Vossler, Thomas Mann (a cui Croce dedicò la Storia d’Europa nel secolo decimonono), per sottolineare l’analoga reazione di due uomini di non comune statura intellettuale, quasi contemporanei, i quali, dopo aver condiviso prima della Grande Guerra i valori di una cultura conservatrice a sfondo autoritario, erano stati costretti dalle circostanze a rifare i conti con il loro passato, e quindi a riesaminarlo con un distacco critico, che comportava, al tempo stesso, una revisione del proprio pensiero politico e del significato storico dell’epoca in cui tale pensiero si era formato. Quello tra Croce Vossler e Mann fu un legame forte, cementato da stima intellettuale, da lunga consuetudine e in qualche caso anche da un pur pudico affetto, che si estendeva anche a Leo Spitzer, Albert Einstein, al diplomatico e pubblicista croato, Bogdan Radica e a molti altri chierici, tutti egualmente oppugnatori dell’ondata totalitaria che si era estesa nel Vecchio continente.
E sull’esistenza di questo folto e composito raggruppamenti, Di Rienzo ci fornisce preziosi documenti inediti e in particolare, un lunga relazione dell’Ovra sull’attività antifascista di Benedetto Croce, sugli antifascisti frequentatori della sua casa (Adolfo Omodeo Roberto Bracco, Gino Doria, Anton Dante Coda, Alfredo Parente), sui rapporti del filosofo con Leone Ginzburg, Ada Gobetti e con gli altri che, come Barbara Allason, «le recenti inchieste del marzo 1934 hanno dimostrato dediti all’attività criminosa contro il regime nel così detto complotto di Torino», e sulla relazione intrattenuta dal direttore de «La Critica» con un gruppo di scrittori antifascisti, Salvatorelli, Cajumi, Colorni, Tagliacozzo, Franco Lombardi, e naturalmente con la nipote dello stesso Croce, legata da intima amicizia con Ginzburg.
Il rapporto, inoltre, segnalava anche che, in occasione dei suoi viaggi all’estero, Croce aveva avuto occasione di tenere contati con tutti gli elementi del fuoriuscitismo, «Nitti, Claudio Treves, Filippo Turati Rosselli, Salvemini e compagnia» e si concludeva evidenziando che il fatto «che molti degli arrestati di “Giustizia e Libertà”, nel marzo 1934, (Ernesto Rossi, Riccardo Bauer) erano intimi del filosofo e e che i rapporti politici, da lui intrattenuti con Ginzburg e Nello Rosselli, danno la sensazione che il Croce sia più che a parte dell’opera sovversiva che – con centro Carlo Rosselli a Parigi – si è svolta in Italia».
A ben vedere, conclude Di Rienzo, meglio di Salvemini, aveva compreso le qualità del Croce oppositore, Piero Gobetti che nel 1925 aveva scritto:
Croce in politica ha voluto essere piuttosto lo studioso onesto, che il finto statista, non potendosi improvvisare a cinquant’anni la maschera del questurino o le basse arti dell’intrigo. Se poi si vuol trovargli ad ogni modo un partito, mentre la sua filosofia servì a uomini di tutti i partiti, bisogna constatare che le sue simpatie dovevano andare ad un conservatorismo onesto, moderatamente liberale, capace di salvare le forme e la pace, cara ad ogni uomo laborioso. Per questo conservatorismo illuminato, Croce fu contro la reazione all’aprirsi del Novecento, fu contro la guerra nel 1915, perché la guerra dissipa i risparmi e il lavoro accumulato in economia come in cultura, e si è schierato oggi, apertamente, contro le insidie del nazionalfascismo.
(Pubblicato il 18 febbraio 2021 © «Nazione Futura» – Cultura)