di Hervé A. Cavallera
L’agile volume di Di Rienzo (Benedetto Croce. Gli anni dello scontento. 1943-1948, Soveria Mannelli, Rubettino, 2019, pp. 180), che tiene in debito conto i Taccuini di lavoro e gli epistolari di Benedetto Croce, ricostruisce, con cura filologica e con narrazione coinvolgente, alcuni anni decisivi della vita dell’ultimo Croce, quelli in cui, nell’Italia tagliata in due e nel primissimo dopoguerra, egli fu portato dagli eventi a giocare un ruolo che avrebbe potuto essere non marginale nell’avvenire della nuova Italia.
Di Rienzo fa da subito saltare l’immagine diffusa negli anni Cinquanta (e anche seguenti) di una concordia nel mondo culturale antifascista, «dove il liberalismo del filosofo sarebbe dovuto coesistere armoniosamente con il liberismo di Einaudi, il democraticismo di Giovanni Amendola, i furori giacobini di Salvemini e il liberalismo sovietizzante di Piero Gobetti» (p. 9). In realtà, Croce, rifugiatosi nel 1942 a Villa Tritone nei pressi di Sorrento, cercò, non senza conflitti con Carlo Sforza e Ivanoe Bonomi, di transitare l’Italia verso un futuro di nazione non prona al potere degli alleati vincitori. Di qui il giudicare necessaria l’abdicazione di re Vittorio, la rinuncia alla successione del principe di Piemonte (il futuro Umberto II) e l’affidamento del trono al piccolo Vittorio Emanuele con la reggenza di Maria Josè di Savoia, progetto che, a suo vedere, avrebbe assicurato il permanere della monarchia e al tempo stesso l’immagine di una nazione che tagliava i ponti con il passato e con personaggi in esso decisamente coinvolti. Progetto che non andò in porto per la le resistenze del re e dei politici britannici, per la vanagloria di Sforza e soprattutto per la cosiddetta “svolta di Salerno” per cui nell’aprile 1944 Palmiro Togliatti generò un compromesso tra partiti antifascisti, monarchia e Badoglio, ponendo in qualche modo le basi di quello che sarebbe stato il passaggio verso l’Italia repubblicana e partitica.
A rendere meno felici quei giorni fu poi lo strappo con coloro, come Adolfo Omodeo, a lungo suoi collaboratori, che avevano aderito al Partito d’Azione. Il timore che Croce paventava era appunto un incauto procedere verso la sinistra comunista. «Contro il movimento guidato da Togliatti, che, pur avendo introdotto nel programma alcune formule tali da smussare i dogmi dell’ideologia leninista […] restava fermamente ancorato al modello totalitario sovietico, Croce si batte senza esclusione di colpi» (pp. 18-19), come il filosofo giudicava una commistione di liberalismo e democrazia il Partito d’Azione, il quale, per Croce, mentre annuncia un programma liberale «ne impone uno socialistico» (p. 19).
In realtà, si trattò di un periodo intenso e travagliato, che non terminò con la conclusione della guerra. Su Croce pesava non poco, di là dai contrasti interni con gli amici/nemici, l’angoscia per una finis Italiae se non proprio per una finis Europae. Emergeva la preoccupazione per la dissoluzione dei vecchi Stati europei. Come avrebbe scritto, nel 1947, in una inchiesta della Agenzia Reuters, temeva che «l’Italia e gli altri Stati europei dovessero restare schiacciati nella morsa del rinascente neozarismo russo, dell’irruente libido dominandi della “Repubblica imperiale” statunitense e dall’eterno ritorno della volontà di supremazia dell’Inghilterra» (p.115).
Lo scontro più duro fu certo con il PCI che intendeva «screditare Croce, rappresentandolo come il campione più rappresentativo di una classe politica invecchiata, egoista, intimamente conservatrice, costituzionalmente incapace di comprendere di soddisfare le richieste di cambiamento che provenivano dalle giovani leve intellettuali verso le quali Togliatti aveva aperto un’attivissima campagna di reclutamento» (p.119). Né facili furono, del resto, i rapporti con il partito dei cattolici. Nei mesi della Costituente, infatti, non mancarono «contrasti e confronti, anche accesi, tra Croce e De Gasperi, che non riguardarono soltanto l’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione, destinato a regolare le relazioni tra Stato e Chiesa (che fu votato senza batter ciglio dal PCI su ordine di Togliatti) ma anche i rapporti tra liberali e democristiani all’interno di governi che li videro alleati e persino la critica ingenerosa verso le possibili degenerazioni in senso “comunistico” della DC» (p. 127). A tutto questo si aggiunsero i violenti attacchi nel 1948 che il filosofo subì da parte della stampa comunista, volta a fornire un’immagine «del filosofo fiancheggiatore del fascismo e del plutocrate meridionale interessato a difendere la piena proprietà dei suoi latifondi pugliesi» (p.110). Un periodo dunque non facile, su cui non esiste tuttora una ampia e serena letteratura critica.
Merito del volume di Di Rienzo è l’aver ricostruito con grande equilibrio anni difficili della vita di Benedetto Croce. La sconfitta e la divisione della Penisola, il timore di una pace da pagare a condizioni durissime, l’angoscia per la presenza di tendenze sovietizzanti anche tra coloro che gli erano stati vicini, tormentarono le giornate del filosofo, il quale approvò di buon grado l’allineamento dell’Italia all’Occidente e l’adesione al patto Atl-antico, rendendo merito al De Gasperi.
Invero si trattò di anni di grande trepidazione e di sofferte mediazioni che Benedetto Croce affrontò con coscienza di italiano che doveva pensare all’Italia, mettendo da parte gli studi amati e vagheggiati. Un impegno civile che lo spinse al confronto con quel mondo dell’ “utile” e dell’ “economico” mai particolarmente amato dal filosofo dei “distinti”. Di là dagli errori tattici che Croce sicuramente commise nei calcoli, nei giochi di alleanze, nelle scelte di indirizzo, resta certamente da apprezzare il suo “sentire” l’Italia e volerla non prona e divisa. In fondo, egli sostenne e rivendicò la dignità della nazione in un momento di grande incertezza e confusione. Si tratta di un merito che va certamente ricordato e lo espose ancora una volta ad attacchi rancorosi che egli dovette affrontare con virile coraggio.
(Pubblicato in © «Segni e Comprensione» – anno XXXIII, n. 97, Luglio/Dicembre 2019, pp. 189-191)