di Paolo Simoncelli
Un nuovo studio di Eugenio Di Rienzo smonta una lunga serie di luoghi comuni sulla politica estera europea degli anni Trenta: tra il 1935 e il 1940, con epicentro sulla crisi internazionale determinata dalla conquista dell’Impero fascista le grandi potenze si mossero secondo un copione ben diverso da quello che in genere gli si attribuisce. Roma si trovò più vicina a Mosca che a Berlino mentre Londra mostrò più considerazione per Hitler che per Mussolini. E così fu anche per molti intellettuali che si fecero conquistare dalle vittorie italiane in Africa. Tutto questo spiega l’imbarazzo con cui si è fatto passare sotto silenzio l’ottantesimo anniversario della conquista dell’Etiopia.
Erano seguitissime le lezioni di Storia contemporanea del professor Renato Mori presso la Facoltà romana di Scienze Politiche. Alla fine degli anni Sessanta la Storia contemporanea era stata da poco considerata disciplina scientifica da insegnare nelle Università (i rischi di trasformarla in propaganda politica erano stati ritenuti molto alti e, a giudicare dal seguito, non senza ragione); in precedenza la Storia del Risorgimento – dai limiti cronologici elasticamente estensibili – ne esercitava una funzione supplente. Ma con l’apparire formale dei corsi di Storia contemporanea e di quelli collaterali di Storia dei partiti e movimenti politici (tenuti a Lettere da Renzo De Felice, a Scienze Politiche da Carlo Vallauri) quelli di Risorgimento andarono perdendo interesse. La forte politicizzazione della popolazione studentesca universitaria contribuiva agevolmente a riempire le aule dei corsi di Contemporanea. I corsi di Renato Mori non rispondevano alle aspettative di forsennata ideologizzazione ma questo docente non ne subiva le conseguenti, gravi aggressioni che colpivano invece De Felice.
Eppure Mori non trattava davvero argomenti asettici. Ricordo bene quei corsi, dedicati in dettaglio alla guerra d’Etiopia (1935-1936). Sarà che il professore aveva l’aplomb del professore, o perché di nascita e formazione toscana (Firenze 1912 – Roma 1988), aveva e trasmetteva un gusto raffinato di attenzione al particolare erudito. Del resto, dopo la laurea in Giurisprudenza a Firenze e la guerra (era stato sottotenente di fanteria in Grecia, periodo che ricordava da pacifista, col vezzo di non portare la rivoltella nella fondina ma, per farne vedere il gonfiore, il «Corriere della Sera» accartocciato), i suoi interessi scientifici si rivolsero subito alla storia. Storia del riformismo-illuminismo toscano (che indicava le matrici politiche dell’autore), del socialismo in Lunigiana, dedicando poi attenzione al Cattolicesimo liberale e a Pellegrino Rossi.
Dopo che Mori ebbe conseguita la libera docenza, e acquisita la direzione dell’Archivio storico diplomatico del ministero degli Esteri, seguirono i grandi studi sul Tramonto del potere temporale, 1866-1870 e sulla Politica estera di Francesco Crispi, 1887-1891. Aveva dunque saputo utilizzare come pochi altri gli straordinari fondi dell’Archivio storico-diplomatico, che lo portarono, in conseguenza logica, a seguire lo svolgimento della politica estera crispina fino appunto alla «seconda guerra etiopica». E a noi studenti faceva lezioni che nascevano da quelle ricerche. Anni intensi di lavoro, contrassegnati da tappe di studi, dagli «Appunti sulla questione etiopica», al «Come si giunse alla seconda guerra italo-etiopica», 1970 , a «L’Imperialismo fascista. L’impresa d’Etiopia», 1974 e al «Come si giunse all’Asse Roma-Berlino», 1977, fino al conclusivo «Mussolini e la conquista dell’Etiopia», 1982. Ripensavo a quelle lezioni e a quegli studi, vedendoli ora sviluppati da Eugenio Di Rienzo, un altro professore della stessa Facoltà romana di Scienze Politiche, oggi una fra le tante omonime Facoltà cittadine, pubbliche e private, che proliferano rispondendo non di rado più agli interessi dei docenti che a quelli degli studenti.
Quella guerra locale, confinata lontano dall’Europa, ora appare – ben più della successiva guerra di Spagna – il vero l’innesco del secondo conflitto mondiale. Il «Gioco degli Imperi». La Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale (Società Editrice Dante Alighieri, 2016, pp. 199, € 19,50), è l’ultima fatica del ripensamento revisionistico delle relazioni internazionali del Fascismo e dell’intervento italiano in guerra, cui da anni si viene dedicando Eugenio Di Rienzo. A temere, già alla fine del 1935, che quella guerra d’Etiopia potesse provocare una guerra mondiale era stato del resto uno dei principali protagonisti di quegli anni drammatici: il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt. Meno lungimiranti gli altri leader europei la cui comune, aggressiva tradizione colonialista (manifestatasi in Italia tardi con Crispi e malamente, senza cioè il superamento dell’angoscia collettiva provocata dalla sconfitta di Adua del 1896), consentiva illusoriamente di confinare quelle guerre solo in teatri d’operazione extraeuropei.
Ma con l’Impero d’Etiopia membro della Società delle Nazioni, «vendicare» appunto Adua e far «risorgere» i relativi eroi (secondo una delle canzoni più popolari degli anni ruggenti), era un problema internazionale non di poco conto. Le «inique sanzioni» votate dalla Società delle Nazioni l’11 ottobre del ’35, pochi giorni dopo l’inizio delle operazioni italiane, avrebbero visto il fronte diplomatico dividersi, questionare, giocare su più piani (della forma e della sostanza) ecc., secondo uno schieramento ricostruito da Di Rienzo con attenzione non solo alle esigenze ovvie di geopolitica, ma agli scambi economici tra gli Stati, all’incidenza della politica interna su quella estera (di particolare rilievo, ad esempio, negli Stati Uniti, dove le minoranze cattoliche italiana e irlandese non potevano essere trascurate senza conseguenze elettorali) ecc. Insomma la ricomposizione di un mosaico con tessere reperite anche lontano: Giappone e URSS, che diventano protagoniste nient’affatto marginali della rete internazionale di interessi con cui l’Italia di Mussolini dovette confrontarsi. Forse è poco noto ai cultori di storia non specialisti, l’atteggiamento tutt’altro che benevolo verso l’Italia della Germania hitleriana, protesa ad un accordo strategico antibolscevico con l’Inghilterra conservatrice; e per contro la benevola disposizione sovietica verso la posizione italiana (URSS e Italia fin dal 1933 avevano stipulato accordi commerciali di notevole peso. Inoltre all’interno del Fascismo, soprattutto nei circoli intellettuali pisani dove aveva sede la «Scuola corporativa» di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, seguita anche da Delio Cantimori, si guardava con evidente simpatia all’«esperimento sovietico», tanto da tradurre e pubblicare nel ’34 testi antologici di Stalin e Molotov sull’esperienza dei piani quinquennali). Va aggiunta la spinta del mondo arabo a favore dell’impresa italiana, vista come portatrice di libertà religiosa per l’Islam in un’Etiopia centro chiuso di un’antica, originaria tradizione cristiana inveratrice dell’ebraismo.
L’impresa vittoriosa determinò forse il vertice del consenso sociale al Fascismo. La sera di quel 9 maggio ’36, in cui Mussolini proclamò il ritorno dell’Impero «sui colli fatali di Roma», non pochi intellettuali afascisti e antifascisti (da Chabod a Maturi, a Sestan) e le stesse forze politiche ostili al regime furono scossi da un brivido d’emozione; e il silenzio su quella ricorrenza ottant’anni dopo, osservato nelle scorse settimane dalla stampa nazionale, indica un clamoroso processo di rimozione, di pertinace rifiuto di analisi, di autoassoluzione silenziosa e vergognosa: solo da una complicità capillarmente diffusa può derivare infatti l’obbligo del silenzio. Le vicende internazionali analizzate da Di Rienzo sulla raccolta a vasto raggio delle fonti diplomatiche, offrono un concatenato seguito di quella vittoria. Seguito che mostra tutta la sua pericolosità: Hitler che assai malvolentieri abbandona la strategia d’intesa con l’Inghilterra; questa che, con Eden alla guida del Foreign Office, aumenta a livelli parossistici il livore anti-italiano, giungendo a manifestare il suo feeling con Hitler di cui riteneva che, diversamente dal «malfattore» Mussolini, ci si potesse fidare e con cui anzi ci si potesse alleare.
Il «nemico», agli occhi di Eden, era infatti comune a Inghilterra e Germania: l’URSS e l’Italia che aveva sbarrato a Hitler le porte di Vienna. L’Italia, da parte sua, per la necessità del riconoscimento internazionale del nuovo Impero, svendeva le proprie strategiche posizioni di presenza politico-culturale in tutto il Medio Oriente che infiammavano il mondo arabo pronto a una sollevazione anti-inglese (e, originariamente, più filo-italiana che filo-tedesca). Ma, ricorda Di Rienzo, non per questo, la politica estera italiana guidata da Ciano ebbe allora un corso obbligato verso la Germania hitleriana; tutt’altro. Uno scenario internazionale che vede quindi scomporre le vulgate di facile approccio e diffusione scolastica. Ancora fino al gennaio ’39, quando giunsero a Roma, a colloquio con Mussolini, Chamberlain e il nuovo segretario agli Esteri, lord Halifax (che aveva sostituito Eden dimessosi proprio per protesta contro la politica di Chamberlain ritenuta troppo cedevole nei confronti dell’Italia), tutti gli scenari possibili e immaginabili erano aperti e percorribili in ogni senso da ogni protagonista della scena internazionale.
Di Rienzo torna a ripetere, come già fatto in altre sue ricerche, che il problema dell’intervento in guerra italiano nel giugno 1940 a tutt’oggi non è affatto chiaro. Né la dichiarazione di patente falsità del carteggio Churchill-Mussolini, cui è giunta una recente analisi di Mimmo Franzinelli, risolve il problema: questa documentazione è, sì, evidentemente falsa; ma la serie di documenti anche solo editi sui rapporti intercorsi tra Francia, Inghilterra e Italia per evitare la guerra, profilano ben altra possibile linea interpretativa: Mussolini faceva il viso dell’armi a quanti si presentavano con proposte di pace, dalla Santa Sede (tema cui Italo Garzia già dedicò l’ampio volume su Pio XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale, 1988) alla Francia (ben noto in merito il lavoro di Emilio Gin, L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento, 2012, di cui si è detto su «Storia in rete» n. 87-88). Nel giugno 1940, solo 48 ore prima della dichiarazione di guerra, l’ambasciatore italiano a Parigi, Raffaele Guariglia, di fronte alle ultime insistenze francesi (l’Italia potrà non amare una pace britannica, ma ancor meno potrà sopportare una pace tedesca; perché dunque non cercare un’altra, estrema possibilità?), non nascondeva che «la necessità della ricostruzione europea», obiettivo di Mussolini, poteva raggiungersi anziché coi tempi lunghi d’una normale evoluzione politica, anche attraverso la via accelerata d’una guerra. Una «guerra» tutta particolare, frenata, e delle cui movenze operative proprio la Francia era già stata informata tramite la Segreteria di Stato vaticana. Del resto, ha ricordato Emilio Gin ne L’ora segnata dal destino, fu proprio un plenipotenziario francese, il generale Charles Huntziger, nel corso delle trattative di pace franco-tedesche del 22 giugno ‘40 a ricordare che l’Italia aveva «déclaré la guerre» alla Francia, «mais ne nous l’a pas faite». Non solo non l’aveva fatta, ma aveva anche avvertito dove avrebbe fatto finta di farla.
«Storia in Rete», 82, Giugno 2016
(Pubblicato in: © «Storia in Rete», 82, Giugno 2016)