di Alessandro Guerra
Honoré de Balzac, grande conoscitore di uomini e tempi, aveva colto bene la dissipazione dei rampolli dell’aristocrazia francese fra Sette e Ottocento, alla ricerca di un passato che non poteva tornare. Il marchese Raphaël, ultimo rampollo della famiglia de Valentin, il protagonista di La pelle di zigrino (1831), mostra tutto il disfacimento di un corpo sociale perso nell’incapacità di trovare una misura fra l’ancestrale desiderio di potenza e il confronto con la realtà sociale e politica. La nobiltà si assottigliava progressivamente, proprio come la magica pelle di zigrino, ogni volta che Raphaël cedeva al desiderio di competere con i nuovi tempi segnati dagli ideali di eguaglianza e dalla meccanica della Rivoluzione. La società fondata ora sul potere del denaro vedeva lentamente scomparire la tradizione e l’autorità di antico regime e si rifletteva nei nuovi protagonisti: Raphaël deve morire per lasciar vivere Cesar Birotteau. Nell’ottica italiana, su questo tema è tornato a riflettere su questi temi Alessandro Cont nel suo Giovin signori. Gli apprendisti del gran mondo nel Settecento italiano (Editrice Dante Alighieri 2017). In particolare, come evidenzia Aurelio Musi nell’introduzione, il merito di questo lavoro è stato quello di cogliere il rapporto «tra la pluralità e omogeneità dei giovin signori nella geopolitica italiana del Settecento».
Va da sé, l’Italia non è la Francia dove la dialettica sociale era più pronunciata e il conflitto più acceso. Attraverso l’analisi dei vari contesti regionali (soprattutto Napoli, Roma, Parma, Milano, Firenze) Cont arriva a tracciare il profilo di una élite con una ben definita uniformità nei costumi e nelle mentalità, malgrado la frammentazione politico-istituzionale e il pluralismo giuridico-amministrativo ne mettessero continuamente a rischio lo statuto di corpo. Se l’autocoscienza dei giovani membri dell’aristocrazia era messa alla prova dallo spirito dei Lumi e dall’anelito alle riforme di tutta un’epoca, e nuove pratiche sociali, mode e sensibilità sollecitassero un cambiamento di gusti e comportamenti, resisteva tuttavia una tradizione conservatrice. Una vera e propria azione di resistenza che indusse i giovani nobili a dare forma al nuovo tempo. Diventati adulti durante la stagione rivoluzionaria, questi giovani dimostreranno tutta la loro forza nella capacità di rigenerarsi e conservare quasi per intero il proprio potere, tanto da poter definire la loro l’autentica rivoluzione passiva del panorama italiano.
Era un percorso che affondava l’origine nella stagione illuministica. Cont nota infatti come proprio l’azione delle corti rispondesse ad una precisa strategia, in forza della quale provare ad orientare il mutamento senza interromperlo. Sicché nei diversi domini locali si alimentavano forme di sociabilità in grado di diffondere sintonia tra i costumi aristocratici. È un’egemonia, quella nobiliare, che viene ribadita da una serie di disposizioni collocate fra il 1746 e il 1769, attraverso cui i sovrani provvidero a regolamentare la materia dei titoli e degli onori. Eppure, chiarisce l’autore, «la capacità di adattamento o meno dei diversi lignaggi, a fronte in buona parte della Penisola, di una cospicua mobilità cetuale ascendente e discendente, passa non di rado attraverso contrasti inter ed intra-generazionali» (p. 18). A mio parere, per parlare compiutamente di generazione per questi giovani nobili, almeno secondo il più stringente lessico storico, occorrerebbe qualche elemento in più, senza limitarsi a ritagliare una generazione sul dato cronologico e l’omogeneità sociale; difficile interpretare come memoria condivisa e autorappresentazione di un mondo il semplice racconto individuale del proprio vissuto biografico. Certo è che qualche elemento di rottura, rispetto quantomeno ai propri padri, è evidente se si assume la loro narrazione nella coralità delle varie esperienze; in altre parole, anche se parlano prevalentemente di sé, ci sono alcuni elementi che sembrano suggerire che lo spirito del tempo avesse convinto quei giovani signori di essere parte di una nuova epoca, di vivere una transizione e modellare un comportamento collettivo. Il ventiquattrenne conte Annibale Capece della Somaglia di Piacenza si immerse nella lettura della Nouvelle Héloïse roussoviana per contestare la ragione del suo ordine verso i matrimoni di interessi. Non tenere nella giusta considerazione i sentimenti perché diseconomici e affidarsi al consolidato sistema della procura per garantire i patrimoni sembrava essere un arcaismo di cui i più giovani volevano finalmente liberarsi. E la ribellione al matrimonio concordato, registra l’autore, è la prima molla che spinse questi giovani a provare a invertire la rotta, molto spesso assecondati dal sovrano locale in un’ottica di assolutismo paternalista e illuminato. Un elemento di disaccordo rispetto alle pratiche familiari che intercettava un più vasto moto europeo all’insegna del «suismo» (p. 18) con cui i giovani volevano rimarcare il proprio protagonismo. E qui sta bene che Cont segnali il moto di ribellione di Ignazio Serra di Cassano che in una lettera del 1790 scriveva al fratello di ritenere «strano che possano due giovani vivere separati, amandosi, l’intervallo di tre anni». Val la pena ricordare che il giovane Ignazio porterà a estrema coerenza la difesa delle proprie passioni con l’adesione alla Repubblica napoletana del 1799.
Emerge insomma un quadro a tutto tondo dei giovin signori, per dirla con Parini, che mostra come nell’Italia alle soglie della stagione rivoluzionaria la nobiltà, i giovani nobili, non avessero un futuro predeterminato ma si ritagliarono la possibilità di una scelta. Una possibilità strenuamente difesa dai rampolli dell’aristocrazia con un ventaglio di argomentazioni che andavano dalla rottura temporanea con la famiglia, alla rivendicazione del proprio diritto a vivere la vita, senza badare alle conseguenze, o accettando anche le più dure come la caduta di stato; fino alla drammatica decisione di testimoniare con il suicidio la volontà di vivere liberi. È questa, ad esempio, la lacerante decisione di Francesco Antonio Piromallo di Montebello, giovane nobile calabrese che volle pagare con il sacrificio di sé il rifiuto di accettare un matrimonio di interesse deciso per lui dal padre. A questo proposito è importante rimarcare il dispotico retaggio patriarcale e il solido dominio maschile su cui era avvitata la società italiana di fine Settecento, ma forse sarebbe stata opportuna, in presenza di documentazione utile beninteso, una ricognizione o quantomeno un cenno sulla vita e la complessità delle scelte delle giovani signore dell’aristocrazia. L’itinerario arcinoto della Fonseca Pimentel sembra suggerire che anche in questa direzione è possibile indagare con profitto (come dimostra del resto l’ampia bibliografia esistente: cito a titolo di esempio i lavori di Benedetta Craveri, Giulia Calvi e Maria Antonietta Visceglia), senza ridursi a menzionare la presenza femminile come specchio del fenomeno del cicisbeismo o oggetto dei desideri e dello struggimento degli uomini.
Naturalmente, il panorama maschile è più definito e Cont ne illustra bene le prospettive. In particolare emerge come questi giovani rampolli trovassero pragmaticamente nella costruzione di un accorto curriculum uno dei possibili strumenti di riscatto dalle tradizioni avite. Non solo la formale educazione nei collegi ma un programma utile per attraversare il mondo, con lezioni di diritto, musica, disegno, storia, filosofia ma soprattutto le lingue straniere e una più puntuale conoscenza dell’italiano, «lingua purtroppo negletta quanto a noi necessarissima», come sostenne il marchese ferrarese Francesco Bevilacqua nel 1776. Resisteva l’educazione religiosa, in particolare l’ansia sacrificale che almeno da due secoli ammantava la militanza gesuitica, non tanto come apprendistato cadetto ma come fuga dal mondo, secondo quanto sperava il nobile genovese Giuseppe Maria Brignole. Quel che importava era soprattutto allontanarsi da un ambiente familiare avvertito come sempre più oppressivo, una specie di condizionamento sociale e culturale che strappando i vincoli familiari servisse anche a spezzare la tri- ste ripetizione di una formazione votata alla prevaricazione, diffusa fino ad allora fra le casate nobiliari. Erano cambiati i tempi e i giovani si attrezzavano a viverli imponendosi il dominio di sé attraverso un più corretto codice cavalleresco per adeguarsi alla nuova civiltà delle buone maniere. È un panorama che muta di regione in regione come fa notare l’autore sulla scorta delle testimonianze dei viaggiatori stranieri impegnati nel Grand Tour per l’Europa. La nuova sfera di sociabilità richiedeva nuovi modelli di comportamento pubblico e privato a cui i giovani cercarono di adeguarsi anche se poi, alla fine del secolo, i luoghi di riunione, i casini nobiliari, finirono per riproporre l’attesa di primato sociale a cui quegli stessi giovani sentivano oramai di poter ambire autonomamente. Per il caso veneziano citato da Cont basterebbe leggere le informative destinate al Senato cittadino per comprendere quanto, di fronte all’arrivo delle idee rivoluzionarie, i casini si trasformassero da subito in centri di cospirazione controrivoluzionaria, reinventando in tal modo la tradizione. In fondo, come scrisse Annibale della Somaglia nel 1765, la vita del nobile era intrisa di noia, di ripetizione all’infinito di un modello che non prevedeva alternative, se non attraverso conflitti che difficilmente e raramente vennero agiti, a pena di perdere ogni beneficio connesso al ruolo. In questa monotonia si può leggere una linea di continuità con quei giovani borghesi che all’alba del XX secolo attraverso un duro apprendistato si preparavano a prendere il potere, così come li ha mostrati recentemente Catia Papa (L’Italia giovane. Dall’Unità al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2013). Anche loro in rivolta, questa volta contro il materialismo di cui sembrava espressione la propria classe sociale, i giovani borghesi trovarono infine nella guerra, nella grandezza nazionale il lavacro sacrificale in cui rigenerarsi per finire con identificare nel fascismo il puntello ai propri sogni. Senza accorgersi di essere arrivati sul baratro.
(Pubblicato in – © «Diciottesimo Secolo», anno III, 2018 (recensione pdf)